Angolo Musicale

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sabato, novembre 05, 2005

La Cina rivede la sua politica di pianificazione familiare

La Cina rivede la sua politica di pianificazione familiare.
Una riflessione sulle conseguenze frena le politiche più dure PECHINO, sabato, 29 ottobre 2005 (ZENIT.org).-

La Cina sta pagando un pesante pegno per la sua dura politica di controllo demografico dell’ultimo quarto di secolo. Un riepilogo di queste conseguenze è apparso in un articolo pubblicato il 15 settembre sul New England Journal of Medicine. L’articolo intitolato “The Effect of China's One-Child Family Policy after 25 Years” (Le conseguenze della politica del figlio unico in Cina dopo 25 anni), scritto da Therese Hesketh e Zhu Wei Xing, osserva che questa normativa riguarda materie che spaziano dalle dimensioni della famiglia, al matrimonio in età avanzata, allo scaglionamento dei figli. L’espressione “politica del figlio unico” è in effetti fuorviante, in quanto essa è applicata solo ad una parte della popolazione e principalmente ai dipendenti pubblici e agli abitanti delle aree urbane. Alle famiglie rurali viene generalmente consentito di avere un secondo figlio, anche se dopo cinque anni dalla nascita del primo, soprattutto se il primo è una femmina.Le restrizioni sono attuate attraverso un sistema assai diversificato di premi e di penalità, amministrato dai funzionari pubblici locali. Esso può comprendere incentivi economici per chi rispetta le regole, o consistenti sanzioni, tra cui la confisca dei beni e il licenziamento dal lavoro, per chi non le rispetta.La contraccezione e l’aborto sono la spina dorsale di questa politica. In genere vengono attuate misure di lunga durata, come i dispositivi intrauterini e la sterilizzazione, che insieme assommano a più del 90% dei metodi contraccettivi utilizzati sin dalla metà degli anni ’80. Gli autori osservano che alle donne in genere non viene data alcuna la possibilità di scelta nella contraccezione.Hesketh e Zhu osservano poi che le autorità rivendicano il successo di questa politica che ha impedito la nascita di un numero di bambini che va dai 250 milioni ai 300 milioni. Gli autori avvertono tuttavia che le statistiche demografiche in Cina sono note per essere oggetto di manipolazione da parte del Governo. Il tasso di fertilità totale – la media dei figli nati per donna – è diminuito dai 2,9 del 1979 all’1,7 del 2004, con un livello dell’1,3 figli nelle aree urbane e poco meno di 2,0 figli nelle zone rurali.L’eliminazione delle figlie Una delle conseguenze della pianificazione familiare è la crescente sproporzione tra maschi e femmine. La proporzione di maschi nati vivi rispetto alle femmine nate vive varia dall’1,03 all’1,07 nei Paesi industrializzati. In Cina il rapporto era dell’1,06 nel 1979, ma nel 2001 ha raggiunto la cifra di 1,17 maschi per ogni femmina.La selezione del sesso attraverso l’aborto, resa possibile grazie all’uso delle immagini ecografiche mediante le quali identificare il sesso dei bambini non nati, riguarda un’ampia percentuale delle bambine femmine uccise. E mentre si pensa all’infanticidio come ad un fenomeno raro, si osserva che, di fatto, le fanciulle malate ricevono meno cure mediche. La crescente scarsità di donne ha già portato ad un aumento dei rapimenti e del traffico di donne finalizzato al matrimonio, e potrebbe ben rappresentare una minaccia alla stabilità del Paese negli anni che verranno, secondo alcuni analisti.Il basso tasso di natalità ha fatto da sfondo ad un rapido invecchiamento della popolazione cinese. La percentuale delle persone ultra sessantacinquenni era il 5% della popolazione nel 1982 e ora si attesta al 7,5%. Entro il 2025 potrebbe raggiungere il 15%. Si tratta di cifre certamente più basse rispetto ai Paesi industrializzati. Ma la mancanza di un adeguato sistema pensionistico in Cina implica che gran parte degli anziani debba dipendere dai propri figli per un sostegno, tanto da generare preoccupazione per il numero sempre più esiguo di nascite. Le autorità hanno implicitamente riconosciuto alcuni dei problemi generati dalle misure di pianificazione familiare, e stanno adottando politiche più flessibili in diverse regioni del Paese. Una ammissione palese è arrivata invece all’inizio di quest’anno, secondo la Reuters del 6 gennaio, quando, in occasione del raggiungimento in Cina della soglia di 1,3 miliardi di persone, un editoriale apparso sul China Daily, pur sostenendo la politica del figlio unico, ha ammesso che: “la politica della pianificazione familiare è diventata controproducente in alcuni luoghi”.La Reuters ha poi riportato lo stesso giorno che la Cina stava adottando ulteriori misure per ridurre la pratica dell’aborto selettivo. L’agenzia di stampa afferma che, secondo i dati del Governo, per ogni 100 femmine nascono 119 maschi. L’aborto per la selezione del sesso era già stato reso illegale, ma i nuovi programmi prevedono un ulteriore restringimento della normativa, tra cui il divieto di far uso di apparecchi ecografici per identificare il sesso dei feti.Le autorità hanno tuttavia chiarito che non faranno opposizione alle politiche di pianificazione familiare. L’Associated Press ha riferito il 5 gennaio scorso che una donna di Shangai, Mao Hengfeng, è stata condannata ad ulteriori tre mesi di lavori forzati per la sua opposizione alle politiche. La donna stava già scontando la pena di un anno e mezzo per la sua campagna diretta all’eliminazione delle politiche di pianificazione familiare.Le repressioni aumentano I recenti eventi verificatisi nella provincia orientale dello Shandong dimostrano quanto restrittive siano ancora le politiche di pianificazione familiare. Il 7 settembre, il Washington Post ha riferito che Chen Guangcheng, contadino non vedente che ha partecipato alla campagna contro l’uso della sterilizzazione forzata e all’aborto coatto, era stato arrestato dalle autorità mentre si trovava a Pechino nel periodo in cui stava preparando un ricorso contro questi abusi.Chen vive a Linyi, una città a Sud-Est della capitale. Egli aveva protestato contro quei provvedimenti locali che imponevano ai genitori con due figli di essere sterilizzati, e alle donne incinte del terzo figlio di essere sottoposte ad aborto. Tre giorni dopo il Washinton Post riferiva che Chen era stato posto agli arresti domiciliari dalle autorità e non poteva ricevere visite. La rivista Time del 19 settembre, trattando dello stesso tema, ha riportato graficamente le descrizioni del caso di aborto forzato a cui è stata sottoposta Li Juan, esercitato su un feto di 9 mesi di gestazione. L’articolo spiega che le politiche di pianificazione familiare erano state allentate a livello nazionale nel 2002, consentendo ai genitori di avere ulteriori figli, a condizione di pagare pesanti sanzioni. Ma, oggi, in molti casi i funzionari locali del Partito comunista continuano a mantenere in vigore il sistema anteriore e le relative norme.Dopo le critiche espresse dai responsabili provinciali, per i tassi di natalità a loro avviso troppo alti, i funzionari locali hanno avviato una campagna a marzo per l’eliminazione di ciò che hanno considerato come nascite in eccesso. La rivista Time ha descritto l’operazione come “una delle più brutali sterilizzazioni di massa e campagne abortive mai viste in anni”. In una singola contea, almeno 7.000 persone erano state costrette a farsi sterilizzare tra marzo e luglio. Secondo il Time, diversi abitanti dei villaggi erano stati percossi a morte per aver tentato di aiutare i componenti delle proprie famiglie ad evitare la sterilizzazione.I funzionari hanno anche arrestato i componenti delle famiglie che non volevano essere sterilizzati, secondo il Chicago Tribute del 2 ottobre. E in un caso, una famiglia era stata costretta a pagare una multa equivalente a 617 dollari, più di quanto un agricoltore medio guadagna in un anno di lavoro nella provincia.Il Washington Post ha ripreso l’argomento il 20 settembre scorso, riportando che i funzionari della città di Linyi erano stati licenziati per gli abusi commessi nell’attuazione della politica del figlio unico. Ma il quotidiano ha anche citato Jian Tianyong, avvocato locale, coinvolto in una causa contro i funzionari, il quale avrebbe detto che solo alcuni funzionari di livello inferiore erano stati puniti, senza toccare i leader del partito.Gli eventi recenti sono stati criticati dall’organizzazione per i diritti umani Amnesty International. In un comunicato stampa del 14 ottobre, Amnesty ha affermato di non aver preso una posizione ufficiale sulla “politica del controllo delle nascite”. La sua preoccupazione è rivolta invece alle violazioni dei diritti umani commesse nell’applicazione di questa politica mediante mezzi coercitivi.Con riferimento all’imposizione dell’aborto e della sterilizzazione, e alla detenzione delle persone, Amnesty ha dichiarato di considerare tali azioni “delle pratiche crudeli, disumane e degradanti, equiparabili alla tortura”. ZIA05102901

mercoledì, ottobre 19, 2005

Sono in Italia

Carissimi,

voi tutti sapete che mi trovo in ITALIA per le mie vacanze. Ritornero' a scrivere su questo blog, quando ritornero' ad Hong Kong il giorno 26 gennaio 2006.

Sono molto contento di stare con la mia famiglia e con la mia comunita' diocesana di Bari-Bitonto che mi ha inviato missionario ad Hong Kong.

A presto.

mercoledì, agosto 24, 2005

24.08.2005 Ultima notte in Hong Kong

Si'. Questa e' l'ultima notte che passo ad HK. Non mi sembra vero... ma dopo 5 anni, domani per la prima volta, ritorno a casa, nella mia casa. Ritorno per abbracciare la mia cara famiglia che mi ha lasciato libero nelle mani del Signore. Ritorno alla mia gente, ai miei grumesi. Ritorno alla Chiesa che mi ha inviato in missione. Ritorno a casa. Cambiato. Con il cuore dilatato. Con il cuore un po' italiano e un po' cinese, ma sempre colmo della presenza dell'unico mio Dio, che tanto ci ama!!!

Non pensavo affatto che questa sera sarei persino riuscito a scrivere il mio diario, che avevo abbandonato a motivo di tanto lavoro. Si ho anche fatto le valigie. Stasera posso dormire in pace, serenamente, visto che in questo ultimo mese sono stato impegnato nel trasloco nella nuova parrocchia. Impegnato nell'organizzare tutte le attivita' del nuovo anno presso la vecchia parrocchia. Impegnato con i giovani universitari che in questo periodo estivo sono piu' liberi. Impegnato nel fare bene il prete gioioso. Insomma, a questo si aggiunga che solo ieri sera sono andato a comprare qualche ricordino da portare a casa. Per fortuna che oggi il Signore mi ha sostenuto. Posso davvero dire di avere il cuore in pace.

Mi trovo nella nuova parrocchia di santa Teresa gia' da domenica sera. Dopo aver visto la messa in diretta da Colonia sul mio computer, ho lasciato la mia TaiPo dopo ben 3 anni e mi sono trasferito definitivamente in questa nuova parrocchia. Ieri martedi', per la prima volta ho concelebrato, cosi' come ho fatto questa sera e come faro' domani mattina. Sono felice e contento, ma poiche' preso da mille cose da fare, praticamente non ho potuto godermi la gioia della partenza. Mi resta solo domani, meglio di niente!!!
Poi senza parlarvi della festa di saluto che mi e' stata fatta nella vecchia parrocchia il giorno 14, al pomeriggio. Mi volevano fare piangere, ma non ci sono riusciti. Pero' ci siamo tutti commossi. Partire e' un po' morire! Per questo la vocazione dei missionari e' quella di morire. La Scrittura ci dice che se moriamo con Gesu', allora vivremo eternamente anche con lui. E' bello quindi, per certi aspetti sapersi con-sepolti, nella speranza un giorno di con-risorgere. E' proprio questo a spingerci a lavorare per Lui.

Bene, miei cari, adesso prego un po' e poi vado a letto vista la stanchezza. Tante cose ho da raccontarvi, ma tante altre ne avrete voi. A presto, anzi... a prestissimo. Domani giovedi', ore 20.45 locale parto da Hong Kong. Arrivero' alle ore 6.30 di venerdi' mattina a Roma. Per poi giungere a Bari-Palese alle ore 10.25. Vi abbraccero' tutti, uno per uno. A presto. Sempre nelle mani di Dio, del mio e vostro Dio.

domenica, agosto 21, 2005

21.08.2005 Omelia del Santo Padre nella Messa della Giornata Mondiale della Gioventu' - Colonia 2005

Cari giovani!
Davanti all’Ostia sacra, nella quale Gesù per noi si è fatto pane che dall’interno sostiene e nutre la nostra vita (cfr Gv 6,35), abbiamo ieri sera cominciato il cammino interiore dell’adorazione. Nell’Eucaristia l’adorazione deve diventare unione. Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell’"ora" di Gesù di cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l’Eucaristia questa sua "ora" diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli Egli celebrò la cena pasquale d’Israele, il memoriale dell’azione liberatrice di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i riti d’Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: "Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue". E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.
Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l’atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l’ultima parola. È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere – la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.
Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L’adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo. Io trovo un’allusione molto bella a questo nuovo passo che l’Ultima Cena ci ha donato nella differente accezione che la parola "adorazione" ha in greco e in latino. La parola greca suona proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni. Questo gesto è necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste a questa prospettiva. Il farla completamente nostra sarà possibile soltanto nel secondo passo che l’Ultima Cena ci dischiude. La parola latina per adorazione è ad-oratio – contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere.
Torniamo ancora all’Ultima Cena. La novità che lì si verificò, stava nella nuova profondità dell’antica preghiera di benedizione d’Israele, che da allora diventa la parola della trasformazione e dona a noi la partecipazione all’"ora" di Cristo. Gesù non ci ha dato il compito di ripetere la Cena pasquale che, del resto, in quanto anniversario, non è ripetibile a piacimento. Ci ha dato il compito di entrare nella sua "ora". Entriamo in essa mediante la parola del potere sacro della consacrazione – una trasformazione che si realizza mediante la preghiera di lode, che ci pone in continuità con Israele e con tutta la storia della salvezza, e al contempo ci dona la novità verso cui quella preghiera per sua intima natura tendeva. Questa preghiera – chiamata dalla Chiesa "preghiera eucaristica" – pone in essere l’Eucaristia. Essa è parola di potere, che trasforma i doni della terra in modo del tutto nuovo nel dono di sé di Dio e ci coinvolge in questo processo di trasformazione. Per questo chiamiamo questo avvenimento Eucaristia, che è la traduzione della parola ebraica beracha – ringraziamento, lode, benedizione, e così trasformazione a partire dal Signore: presenza della sua "ora". L’ora di Gesù è l’ora in cui vince l’amore. In altri termini: è Dio che ha vinto, perché Egli è l’Amore. L’ora di Gesù vuole diventare la nostra ora e lo diventerà, se noi, mediante la celebrazione dell’Eucaristia, ci lasciamo tirare dentro quel processo di trasformazioni che il Signore ha di mira. L’Eucaristia deve diventare il centro della nostra vita. Non è positivismo o brama di potere, se la Chiesa ci dice che l’Eucaristia è parte della domenica. Al mattino di Pasqua, prima le donne e poi i discepoli ebbero la grazia di vedere il Signore. D’allora in poi essi seppero che ormai il primo giorno della settimana, la domenica, sarebbe stato il giorno di Lui, di Cristo. Il giorno dell’inizio della creazione diventava il giorno del rinnovamento della creazione. Creazione e redenzione vanno insieme. Per questo è così importante la domenica. È bello che oggi, in molte culture, la domenica sia un giorno libero o, insieme col sabato, costituisca addirittura il cosiddetto "fine-settimana" libero. Questo tempo libero, tuttavia, rimane vuoto se in esso non c’è Dio. Cari amici! Qualche volta, in un primo momento, può risultare piuttosto scomodo dover programmare nella domenica anche la Messa. Ma se vi ponete impegno, constaterete poi che è proprio questo che dà il giusto centro al tempo libero. Non lasciatevi dissuadere dal partecipare all’Eucaristia domenicale ed aiutate anche gli altri a scoprirla. Certo, perché da essa si sprigioni la gioia di cui abbiamo bisogno, dobbiamo imparare a comprenderla sempre di più nelle sue profondità, dobbiamo imparare ad amarla. Impegniamoci in questo senso – ne vale la pena! Scopriamo l’intima ricchezza della liturgia della Chiesa e la sua vera grandezza: non siamo noi a far festa per noi, ma è invece lo stesso Dio vivente a preparare per noi una festa. Con l’amore per l’Eucaristia riscoprirete anche il sacramento della Riconciliazione, nel quale la bontà misericordiosa di Dio consente sempre un nuovo inizio alla nostra vita.
Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Ma al tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di tutto e di tutti. Vien fatto di esclamare: Non è possibile che questa sia la vita! Davvero no. E così insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un "boom" del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c’è in questo contesto. Può esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del "fai da te" alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell’ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l’amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura. È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua fede crescente e l’ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della verità (cfr Gv 16,13). Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un’opera meravigliosa, nella quale la fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale Catechismo, che è stato elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi.
Ovviamente, i libri da soli non bastano. Formate delle comunità sulla base della fede! Negli ultimi decenni sono nati movimenti e comunità in cui la forza del Vangelo si fa sentire con vivacità. Cercate la comunione nella fede come compagni di cammino che insieme continuano a seguire la strada del grande pellegrinaggio che i Magi dell’Oriente ci hanno indicato per primi. La spontaneità delle nuove comunità è importante, ma è pure importante conservare la comunione col Papa e con i Vescovi. Sono essi a garantire che non si sta cercando dei sentieri privati, ma invece si sta vivendo in quella grande famiglia di Dio che il Signore ha fondato con i dodici Apostoli.
Ancora una volta devo ritornare all’Eucaristia. "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" dice san Paolo (1 Cor 10,17). Con ciò intende dire: Poiché riceviamo il medesimo Signore ed Egli ci accoglie e ci attira dentro di sé, siamo una cosa sola anche tra di noi. Questo deve manifestarsi nella vita. Deve mostrarsi nella capacità del perdono. Deve manifestarsi nella sensibilità per le necessità dell’altro. Deve manifestarsi nella disponibilità a condividere. Deve manifestarsi nell’impegno per il prossimo, per quello vicino come per quello esternamente lontano, che però ci riguarda sempre da vicino. Esistono oggi forme di volontariato, modelli di servizio vicendevole, di cui proprio la nostra società ha urgentemente bisogno. Non dobbiamo, ad esempio, abbandonare gli anziani alla loro solitudine, non dobbiamo passare oltre di fronte ai sofferenti. Se pensiamo e viviamo in virtù della comunione con Cristo, allora ci si aprono gli occhi. Allora non ci adatteremo più a vivacchiare preoccupati solo di noi stessi, ma vedremo dove e come siamo necessari. Vivendo ed agendo così ci accorgeremo ben presto che è molto più bello essere utili e stare a disposizione degli altri che preoccuparsi solo delle comodità che ci vengono offerte. Io so che voi come giovani aspirate alle cose grandi, che volete impegnarvi per un mondo migliore. Dimostratelo agli uomini, dimostratelo al mondo, che aspetta proprio questa testimonianza dai discepoli di Gesù Cristo e che, soprattutto mediante il vostro amore, potrà scoprire la stella che noi seguiamo.
Andiamo avanti con Cristo e viviamo la nostra vita da veri adoratori di Dio! Amen.

20.08.2005 Discorso del papa alla veglia dei giovani

Cari giovani!
Nel nostro pellegrinaggio con i misteriosi Magi dell’Orien¬te siamo giunti a quel momento che san Matteo nel suo Vangelo ci descrive così: “Entrati nella casa (sulla quale la stella si era fermata), videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11). Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone “che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.
Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.
Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uo¬mo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cfr Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.
Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oro, incenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.
Cari amici, ci domandiamo che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita, suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato degli esempi. I Magi provenienti dall’Orien¬te sono soltanto i primi di una lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi, esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi – noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo la storia ha tracciato e traccia ancora. Il mio venerato predecessore Papa Giovanni Paolo II ha beatificato e canonizzato una grande schiera di persone di epoche lontane e vicine. In queste figure ha voluto dimostrarci come si fa ad essere cristiani; come si fa a svolgere la propria vita in modo giusto – a vivere secondo il modo di Dio. I beati e i santi sono stati persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della creazione: “È cosa buona”. Basta pensare a figure come San Benedetto, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure impariamo che cosa significa “adorare”, e che cosa vuol dire vivere secondo la misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio stesso.
I santi, abbiamo detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazio¬ne di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?
Cari amici! Permettetemi di aggiungere soltanto due brevi pensieri. Sono molti coloro che parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi dell’Orien¬te l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di Betlemme. “Chi ha visto me ha visto il Padre”, diceva Gesù a Filippo (Gv 14,9). In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via giusta.
Questo significa che non ci costruiamo un Dio privato, un Gesù privato, ma che crediamo e ci prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente, sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. Papa Giovanni Paolo II, che nei tanti beati e santi ci ha mostrato il volto vero della Chiesa, ha anche chiesto perdono per ciò che nel corso della storia, a motivo dell’agire e del parlare di uomini di Chiesa, è avvenuto di male. In tal modo fa vedere anche a noi la nostra vera immagine e ci esorta ad entrare con tutti i nostri difetti e debolezze nella processione dei santi, che con i Magi dell’Oriente ha preso il suo inizio. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni. Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia; siamo lieti di avere fratelli e amici in tutto il mondo. Lo sperimentiamo proprio qui a Colonia quanto sia bello appartenere ad una famiglia vasta come il mondo, che comprende il cielo e la terra, il passato, il presente e il futuro e tutte le parti della terra. In questa grande comitiva di pellegrini camminiamo insieme con Cristo, camminiamo con la stella che illumina la storia.
“Entrati nella casa, videro il bambino e Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11). Cari amici, questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cfr Gv 12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Mettiamoci ora in cammino per questo pellegrinaggio e chiediamo a Lui di guidarci. Amen.

sabato, agosto 20, 2005

19.08.2005 Omelia di Benedetto XVI ai seminaristi COLONIA

Colonia: omelia di Benedetto XVI ai seminaristi COLONIA, venerdì, 19 agosto 2005 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella chiesa di San Pantaleone di Colonia ai seminaristi che partecipano alla Giornata Mondiale della Gioventù.


* * *[In tedesco]Cari seminaristi!Vi saluto tutti con grande affetto, ringraziandovi per la vostra festosa accoglienza e soprattutto per essere venuti a questo appuntamento da numerosi Paesi dei cinque continenti. Il mio pensiero va innanzitutto al Seminarista, al Sacerdote e al Vescovo che ci hanno offerto la loro personale testimonianza. Grazie di cuore. Sono lieto di questo incontro con voi. Ho voluto che, nel programma di queste giornate di Colonia, ci fosse uno speciale incontro con i giovani seminaristi, perché emergesse in modo esplicito e più forte la dimensione vocazionale, che è sempre presente nelle Giornate Mondiali della Gioventù. Sicuramente voi state vivendo questa esperienza con intensità tutta particolare, proprio perché siete seminaristi, cioè giovani che si trovano in un tempo forte di ricerca di Cristo e di incontro con Lui, in vista di un’importante missione nella Chiesa. Questo è il seminario: non tanto un luogo, ma, appunto, un significativo tempo della vita di un discepolo di Gesù. Immagino l’eco che possono avere dentro di voi le parole del tema di questa ventesima Giornata mondiale – “Siamo venuti per adorarlo” – e l’intero racconto evangelico dei Magi, da cui il tema è tratto. Questa pagina riveste per voi un valore singolare, proprio perché state compiendo il percorso di discernimento e di verifica della chiamata al sacerdozio. Su questo vorrei soffermarmi a riflettere con voi.

[In francese]Perché i Magi da paesi lontani andarono a Betlemme? La risposta è legata al mistero della “stella” che essi videro “sorgere” e che identificarono come la stella del “re dei Giudei”, cioè come il segno della nascita del Messia (cfr Mt 2,2). Quindi il loro viaggio fu mosso dalla forza di una speranza, che nella stella ottenne poi la sua conferma e ricevette la sua guida verso il “re dei Giudei”, verso la regalità di Dio stesso. I Magi partirono perché nutrivano un desiderio grande, che li spingeva a lasciare tutto e a mettersi in cammino. Era come se aspettassero da sempre quella stella. Come se quel viaggio fosse da sempre inscritto nel loro destino, che ora finalmente si realizzava. Cari amici, è questo il mistero della chiamata, della vocazione; mistero che coinvolge la vita di ogni cristiano, ma che si manifesta con maggiore evidenza in coloro che Cristo invita a lasciare tutto per seguirlo più da vicino. Il seminarista vive la bellezza della chiamata nel momento che potremmo definire di “innamoramento”. Il suo animo è colmo di stupore, che gli fa dire nella preghiera: Signore, perché proprio a me? Ma l’amore non ha “perché”, è dono gratuito, a cui si risponde con il dono di sé.

[In inglese]Il seminario è tempo destinato alla formazione e al discernimento. La formazione, come ben sapete, ha diverse dimensioni, che convergono nell’unità della persona: essa comprende l’ambito umano, spirituale e culturale. Il suo scopo più profondo è di far conoscere intimamente quel Dio che in Gesù Cristo ci ha mostrato il suo volto. Per questo è necessario uno studio approfondito della Sacra Scrittura come anche della fede e della vita della Chiesa, nella quale la Scrittura permane come parola vivente. Tutto ciò deve collegarsi con le domande della nostra ragione e quindi con il contesto della vita umana di oggi. Questo studio, a volte, può sembrare faticoso, ma esso costituisce una parte insostituibile del nostro incontro con Cristo e della nostra chiamata ad annunciarlo. Tutto concorre a sviluppare una personalità coerente ed equilibrata, in grado di assumere validamente, per poi compiere responsabilmente la missione presbiterale. Decisivo è il ruolo dei formatori: la qualità del presbiterio in una Chiesa particolare dipende in buona parte da quella del seminario, e perciò dalla qualità dei responsabili della formazione. Cari seminaristi, proprio per questo con viva riconoscenza oggi preghiamo per tutti i vostri superiori, professori ed educatori, che sentiamo spiritualmente presenti a questo incontro. Chiediamo al Signore che possano assolvere nel modo migliore il compito così importante a loro affidato. Il seminario è tempo di cammino, di ricerca, ma soprattutto di scoperta di Cristo. Infatti, solo nella misura in cui fa una personale esperienza di Cristo, il giovane può comprendere in verità la sua volontà e quindi la propria vocazione. Più conosci Gesù e più il suo mistero ti attrae; più lo incontri e più sei spinto a cercarlo. E’ un movimento dello spirito che dura per tutta la vita, e che trova nel seminario una stagione carica di promesse, la sua “primavera”.

[In italiano]Giunti a Betlemme, i Magi, “entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11). Ecco finalmente il momento tanto atteso: l’incontro con Gesù. “Entrati nella casa”: questa casa rappresenta in un certo modo la Chiesa. Per incontrare il Salvatore, bisogna entrare nella casa che è la Chiesa. Durante il tempo del seminario nella coscienza del giovane seminarista avviene una maturazione particolarmente significativa: egli non vede più la Chiesa “dall’esterno”, ma la sente per così dire “dall’interno” come la sua “casa”, perché casa di Cristo, dove abita “Maria sua madre”. Ed è proprio la Madre a mostrargli Gesù, suo Figlio, a presentarglielo, a farglielo in un certo modo vedere, toccare, prendere tra le braccia. Maria gli insegna a contemplarlo con gli occhi del cuore e a vivere di Lui. In ogni momento della vita di seminario si può sperimentare questa amorevole presenza della Madonna, che introduce ciascuno all’incontro con Cristo, nel silenzio della meditazione, nella preghiera e nella fraternità. Maria aiuta ad incontrare il Signore soprattutto nella Celebrazione eucaristica, quando nella Parola e nel Pane consacrato Egli si fa nostro quotidiano nutrimento spirituale.

[In spagnolo]“E prostratisi lo adorarono … e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Mt 2,11-12). E’ questo il culmine di tutto l’itinerario: l’incontro si fa adorazione, sboccia in un atto di fede e d’amore che riconosce in Gesù, nato da Maria, il Figlio di Dio fatto uomo. Come non vedere prefigurata nel gesto dei Magi la fede di Simon Pietro e degli altri Apostoli, la fede di Paolo e di tutti i santi, in particolare dei santi seminaristi e sacerdoti che hanno segnato i duemila anni di storia della Chiesa? Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’adesione fedele alla sua volontà. “Cristo è tutto per noi”, diceva Sant’Ambrogio; e San Benedetto esortava a nulla anteporre all’amore di Cristo. Cristo sia tutto per voi. A Lui, soprattutto voi, cari seminaristi, offrite ciò che avete di più prezioso, come suggeriva il venerato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per questa Giornata Mondiale: l’oro della vostra libertà, l’incenso della vostra preghiera ardente, la mirra del vostro affetto più profondo (cfr n. 4).[In tedesco]Il seminario è tempo di preparazione alla missione. I Magi “fecero ritorno” al loro Paese e certamente resero testimonianza dell’incontro con il Re dei Giudei. Anche voi, dopo il lungo e necessario itinerario formativo del seminario, sarete inviati per essere i ministri del Cristo; ciascuno di voi tornerà tra la gente come alter Christus. Nel viaggio di ritorno, i Magi dovettero affrontare certamente pericoli, fatiche, smarrimenti, dubbi… Non c’era più la stella a guidarli! Ormai la luce era dentro di loro. Ad essi spettava ormai custodirla e alimentarla nella costante memoria di Cristo, del suo Volto santo, del suo Amore ineffabile. Cari seminaristi! Se Dio vorrà, un giorno anche voi, consacrati dallo Spirito Santo, inizierete la vostra missione. Ricordatevi sempre le parole di Gesù: “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Se rimarrete in Cristo, porterete molto frutto. Non voi avete scelto lui, ma lui ha scelto voi (cfr Gv 15,16). Ecco il segreto della vostra vocazione e della vostra missione! Esso è conservato nel cuore immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi. A Lei ricorrete sovente e con fiducia. Io vi assicuro il mio affetto e la mia preghiera quotidiana, mentre di cuore vi benedico.

[Traduzione dall’originale plurilingue distribuita dalla Sala Stampa della Santa Sede]ZI05081911

sabato, luglio 30, 2005

29.07.2005 Ritorno a casa!!!!!!!

Carissimi,
vi informo che dopo 5 anni, ritorno a casa per la mia prima vacanza.
Arrivero' a Bari-Palese il giorno 26 agosto 2005 alle ore 10.25 da Roma Fiumicino con ilvolo Alitalia AZ 1601.
Mi fermero' in Italia fino al 25 gennaio 2006 per poi ritornare ad Hong Kong.
Al mio rientro in HK, non faro' ritorno nella mia attuale parrocchia,
Cuore Immacolato di Maria in Tai Po,
ma andro' come viceparroco in un'altra parrocchia, molto piu' grande,
Santa Teresa in Kowloon Tong (sempre in HK).
Spero che il Signore ci dia la gioia di incontrarci.
Un forte abbraccio virtuale, nell'attesa di farlo di persona.
Dio vi benedica. vostro, don Michele

venerdì, luglio 22, 2005

22.07.2005 TRASFERIMENTO

E' ufficiale:

Il vescovo di Hong Kong,

Mons. Joseph ZEN,

mi ha nominato viceparroco nella parrocchia di

SANTA TERESA

Kowloon.

Al mio ritorno in Hong Kong,

il 26 Gennaio 2006,

andro' nella nuova parrocchia.

Ringrazio Dio e il vescovo

per la fiducia posta in me.

Ringrazio anche la parrocchia del

CUORE IMMACOLATO DI TAI PO

per la meravigliosa esperienza di servizio che mi hanno fatto vivere in questi 3 anni.

Grazie per la vostra pazienza e per il vostro amore.

Dio vi benedica.

Sempre!!!

mercoledì, giugno 29, 2005

28.06.2005 Preghiera per implorare grazie per l'intercessione del Servo di Dio, il Papa Giovanni Paolo II

Preghiera per implorare grazie
per l’intercessione del Servo di Dio
il Papa Giovanni Paolo II
O Trinità Santa,
ti ringraziamo per aver donato alla Chiesa
il Papa Giovanni Paolo II
e per aver fatto risplendere in lui
la tenerezza della tua paternità,
la gloria della Croce di Cristo
e lo splendore dello Spirito d’amore.
Egli, confidando totalmente nella tua infinita misericordia
e nella materna intercessione di Maria,
ci ha dato un’immagine viva di Gesù Buon Pastore
e ci ha indicato la santità
come misura alta della vita cristiana ordinaria
quale strada per raggiungere la comunione eterna con te.
Concedici, per sua intercessione, secondo la tua volontà,
le grazie che imploriamo,
nella speranza che egli sia presto annoverato
nel numero dei tuoi santi.
Amen.
Con approvazione ecclesiastica
CAMILLO CARD. RUINI
Vicario Generale di Sua Santitàper la Diocesi di Roma

venerdì, giugno 24, 2005

24.05.2005 Mons Joseph Zen a Bari


Io e Mons. Zen Posted by Hello
Durante la mia permanenza in Italia, il vescovo di Hong Kong, Mons. Joseph Zen verra' a Bari, per visitare me, incontrare la mia gente, e il mio Arcivescovo mons. Francesco Cacucci. Egli sara' a Bari - Grumo Appula il giorno 21 e 22 Novembre 2005. Sono molto felice per questo felice incontro che egli avra' con la mia gente. Egli e' un salesiano, e' stato ordinato a Torino, nella citta' dove aveva studiato la Teologia. Per cui parla benissimo l'italiano. Benvenuto Eccellenza!!!

domenica, giugno 19, 2005

19.06.2005 Anniversario del mandato missionario


Consegna del crocifisso Posted by Hello
Esattamente oggi, nel 1999, padre Mariano Magrassi, Arcivescovo di Bari-Bitonto, mia amata chiesa locale mi consegnava il crocifisso, inviandomi ufficialmente alla Chiesa di Hong Kong. Grazie Signore per la vocazione missionaria.

sabato, giugno 18, 2005

18.06.2005 Prime confessioni dei neofiti

Questa sera abbiamo ascoltato le prime confessioni dei neofiti, di coloro cioe' che sono stati battezzati nell'ultima Pasqua. E' sempre un grande mistero ascoltare le confessioni sacramentali. Ma quelle dei neofiti ti stimolano ad amare ancora di piu' il Signore. E' bello notare le fatiche e le gioie di coloro che da poco sono stati illuminati dalla Luce che mai tramonta. Il loro ardore e la loro dedizione per il Signore sono encomiabili. Preghiamo ancora perche' siano sempre fedeli a colui che e' fedele per l'eternita'. Non abbandonino mai Colui che ha chiesto di seguirlo fino all'effusione del sangue. Non deludino Colui che ha posto in essi tutta la sua fiducia e il suo amore.

venerdì, giugno 17, 2005

17.06.2005 Giancarlo Cesana: Il Giudizio sul voto

Giancarlo Cesana: il giudizio sul voto Corriere della Sera, 16.06.2005
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Caro Direttore,
il quorum non è stato raggiunto, abbondantemente. Il fatto è significativo perché a favore del sì, della partecipazione al voto, si erano schierate le personalità più in vista, più alla moda, della politica, della cultura e dello spettacolo; ovvero, le personalità che dovrebbero incarnare il sogno di vita dei più. Tutti costoro non sono riusciti a convincere il popolo a seguirli. Come diceva Chesterton, volendo affermare una libertà illimitata, l’hanno resa solo più indefinita, cioè confusa; come è confusa e contraddittoria con la realtà l’immagine di perfezione umana che perseguono. Il popolo ha preferito stare sulle sue, ancora attaccato ai valori che la tradizione porta. Questo atteggiamento è stato bollato come indifferente e superficiale, se non “idiota”, dalla deriva zapatera in cui le nostre elite culturali e politiche sono cadute, ma questo “bollo” è, per lo meno, antidemocratico. Siccome la non partecipazione è stata del 74%, anche ammettendo che i consapevolmente astenuti siano una minoranza, gli indifferenti o idioti sarebbero superiori al 50% della popolazione. Pensare questo indica un disprezzo per il popolo che molti dei referendari hanno in più occasioni dimostrato e dimostrano. Per tale ragione non si fermeranno, continueranno ad insistere sul valore superiore della loro visione dell’uomo e della società. Continueranno a cercare modi di introdurre le loro leggi astruse, distanti da ciò che è reale e da ciò in cui la maggioranza delle persone cerca il compimento della vita.

Cos’è il compimento della vita, se non il potere vivere la vita come è, con i suoi desideri e le sue difficoltà, senza cadere nella disperazione o fuggire nei sogni?

Se si gratta la cosiddetta indifferenza, sotto si trova l’attesa di tale compimento, che è ridicolo affidare a calcoli di perfezione scientifica, come dimostrano quelli che sono belli ma infelici e, al contrario, quelli che - pur in mezzo a difficoltà grandi - non si scoraggiano e sono contenti di ciò che la vita dà loro. Tutti sappiamo che è così perché ogni giorno tutti sperimentiamo che la felicità non accade in condizioni di perfezione, ma in condizioni inaspettate, reali proprio perché imperfette. Sotto la cosiddetta indifferenza, c’è allora l’attesa dell’incontro con un fatto di verità umana preponderante rispetto alle piccole verità scientifiche che sempre si sono dimostrate insufficienti e, quando hanno preteso di essere assolute, anche dannose. C’è l’attesa di un fatto umano che, quando accade, viene riconosciuto subito come vero, anche se magari non se ne sa spiegare il perché. È per esempio il fatto dei tanti che, vivendo una condizione familiare segnata da handicap pesantissimi, dimostrano un’affezione alla vita senza misura, ben al di là dell’identificazione che certo scientismo pone tra malattia e infelicità. Come è possibile che chi non è “perfetto”, “selezionato”, possa ritenere positiva la propria vita? È possibile perché l’uomo è un mistero, non decifrabile da nessuna teoria, se non quella che riconosce la vita come dono. È possibile per la gratuità di coloro che soccorrono chi ha bisogno con una solidarietà pratica, che passa dall’aiuto materiale e dall’amicizia. È possibile per chi rispetta la vita, tutta, dal suo inizio.

Altro che popolo italiano indifferente! Esso aspetta e, se pur cambia opinione politica, tuttavia non si è ancora dimenticato che il fondamento dell’umanità che cerca è nella propria tradizione cristiana, questa volta proposta da una Chiesa decisa e unita. Anche molti laici hanno riconosciuto tale fondamento, come non era mai accaduto prima. Questa umanità e questa tradizione non si risollevano con prediche aggiuntive alle troppe che già ci sono, ma con un incontro che continui e approfondisca quello che è avvenuto per moltissimi con Giovanni Paolo II, con una personalità come don Giussani; con il nuovo Papa Benedetto XVI; con una donna di fede come la vedova Coletta nella strage di Nassiriya; con un amico che sorprendentemente ci rende prossimo il senso della vita e delle cose.

Un’esperienza umana nuova c’è: non è casuale, è un filo rosso che percorre la storia quotidiana di ciascuno. Bisogna saperla vedere, non averne paura, indicarla, valorizzarla e seguirla. Altrimenti, l’indifferenza rimonterà e si chiuderà su di noi come il mare sul bolso esercito del faraone.

Giancarlo Cesana
di Comunione e Liberazione

giovedì, giugno 16, 2005

16.06.2005 Alcune foto con gli studenti

In questa pagina potrete trovare alcune foto scattate con gli studenti universitari della Chinese University. Nelle piu' recenti, si tratta di una messa di saluto e mandato ad alcuni dei laureati, che stanno per lasciare l'universita'. Questa messa e' stata celebrata nella mia parrocchia il 30 maggio 2005.

http://cukatso.blogspot.com/

sabato, giugno 11, 2005

11.06.2005 Non andare a votare

Cardinal Ruini sui referendum: “Non vogliamo forzare le coscienze ma illuminarle”“Lavoriamo invece per qualcuno: per la vita umana nascente”, afferma ROMA, venerdì, 10 giugno 2005 (ZENIT.org).-


"Non vogliamo forzare le coscienze ma soltanto illuminarle; non siamo contro nessuno, lavoriamo invece per qualcuno", afferma il cardinale Camillo Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in vista dei referendum sulla legge 40/2004.Questo è quanto ha detto il porporato italiano, questo giovedì sera, nella sua relazione conclusiva al Convegno della diocesi di Roma su "Famiglia e comunità cristiana: formazione della persona e trasmissione della fede" svoltosi nella Basilica di San Giovanni in Laterano. “Questa sera – ha detto il cardinale Ruini – sento in particolare il bisogno di ringraziare ciascuno di voi per quel che state facendo in rapporto al referendum e alla scelta consapevole del non voto”. “Non siamo noi ad aver voluto il referendum, non siamo e non saremo noi ad esacerbare i contrasti e le contrapposizioni; non vogliamo forzare le coscienze ma soltanto illuminarle”, ha aggiunto quasi a rispondere alle numerose accuse che parlavano di uno “sconfinamento” nel campo della politica in riferimento al suo appello ai fedeli cattolici ad astenersi dal votare il 12 e 13 giugno prossimi.“Non siamo contro nessuno, lavoriamo invece per qualcuno: per la vita umana nascente, certo, e per i figli che hanno diritto a conoscere i propri genitori, ma anche per le donne e gli uomini di oggi e di domani, che devono sempre essere considerati e trattati come persone e non come prodotto di laboratorio o oggetto di sperimentazione, e che anche nel loro giusto desiderio di essere genitori vanno aiutati a non dimenticare che il figlio rimane sempre, prima che una propria soddisfazione, una persona da accogliere in dono", ha detto.Il porporato ha infine concluso precisando che la Chiesa si muove, "anche in quest’occasione, secondo quella logica di servizio e di amore del prossimo che ci ha insegnato il Signore". ZI05061011

martedì, giugno 07, 2005

07.06.2005 Intevento di papa Benedetto XVI sulla famiglia

C'e' davvero tanto da riflettere e studiare su questo meraviglioso intervento del papa Benedetto sulla famiglia. Buona lettura e studio.


DISCORSO DEL SANTO PADRE ALL’APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA SU FAMIGLIA E COMUNITÀ CRISTIANA , 06.06.2005

DISCORSO DEL SANTO PADRE ALL’APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA SU FAMIGLIA E COMUNITÀ CRISTIANA
Alle 19.45 di oggi, il Santo Padre Benedetto XVI si è recato alla Basilica di San Giovanni in Laterano per presiedere l’apertura del Convegno Ecclesiale della Diocesi di Roma su "Famiglia e Comunità cristiana: formazione della persona e trasmissione della fede".
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle,
ho accolto molto volentieri l’invito a introdurre con una mia riflessione questo nostro Convegno Diocesano, anzitutto perché ciò mi dà la possibilità di incontrarvi, di avere un contatto diretto con voi, e poi anche perché posso aiutarvi ad approfondire il senso e lo scopo del cammino pastorale che la Chiesa di Roma sta percorrendo.
Saluto con affetto ciascuno di voi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, e in particolare voi laici e famiglie che assumete consapevolmente quei compiti di impegno e testimonianza cristiana che hanno la loro radice nel sacramento del battesimo e, per coloro che sono sposati, in quello del matrimonio. Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario e i coniugi Luca e Adriana Pasquale per le parole che mi hanno rivolto a nome di voi tutti.
Questo Convegno, e l’anno pastorale di cui esso fornirà le linee guida, costituiscono una nuova tappa del percorso che la Chiesa di Roma ha iniziato, sulla base del Sinodo diocesano, con la Missione cittadina voluta dal nostro tanto amato Papa Giovanni Paolo II, in preparazione al Grande Giubileo del 2000. In quella Missione tutte le realtà della nostra Diocesi - parrocchie, comunità religiose, associazioni e movimenti - si sono mobilitate, non solo per una missione al popolo di Roma, ma per essere esse stesse "popolo di Dio in missione", mettendo in pratica la felice espressione di Giovanni Paolo II "parrocchia, cerca te stessa e trova te stessa fuori di te stessa": nei luoghi cioè nei quali la gente vive. Così, nel corso della Missione cittadina, molte migliaia di cristiani di Roma, in gran parte laici, si sono fatti missionari e hanno portato la parola della fede dapprima nelle famiglie dei vari quartieri della città e poi nei diversi luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle scuole e nelle università, negli spazi della cultura e del tempo libero.
Dopo l’Anno Santo, il mio amato Predecessore vi ha chiesto di non interrompere questo cammino e di non disperdere le energie apostoliche suscitate e i frutti di grazia raccolti. Perciò, a partire dal 2001, il fondamentale indirizzo pastorale della Diocesi è stato quello di dare forma permanente alla missione, caratterizzando in senso più decisamente missionario la vita e le attività delle parrocchie e di ogni altra realtà ecclesiale. Voglio dirvi anzitutto che intendo confermare pienamente questa scelta: essa infatti si rivela sempre più necessaria e senza alternative, in un contesto sociale e culturale nel quale sono all’opera forze molteplici che tendono ad allontanarci dalla fede e dalla vita cristiana.
Da ormai due anni l’impegno missionario della Chiesa di Roma si è concentrato soprattutto sulla famiglia, non solo perché questa fondamentale realtà umana oggi è sottoposta a molteplici difficoltà e minacce e quindi ha particolare bisogno di essere evangelizzata e concretamente sostenuta, ma anche perché le famiglie cristiane costituiscono una risorsa decisiva per l’educazione alla fede, l’edificazione della Chiesa come comunione e la sua capacità di presenza missionaria nelle più diverse situazioni di vita, oltre che per fermentare in senso cristiano la cultura diffusa e le strutture sociali. Su queste linee proseguiremo anche nel prossimo anno pastorale e perciò il tema del nostro Convegno è "Famiglia e comunità cristiana: formazione della persona e trasmissione della fede".
Il presupposto dal quale occorre partire, per poter comprendere la missione della famiglia nella comunità cristiana e i suoi compiti di formazione della persona e trasmissione della fede, rimane sempre quello del significato che il matrimonio e la famiglia rivestono nel disegno di Dio, creatore e salvatore. Questo sarà dunque il nocciolo della mia riflessione di questa sera, richiamandomi all’insegnamento dell’Esortazione Apostolica Familiaris consortio (Parte seconda, nn. 12-16).
Il fondamento antropologico della famiglia
Matrimonio e famiglia non sono in realtà una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? cosa è l’uomo? E questa domanda, a sua volta, non può essere separata dall’interrogativo su Dio: esiste Dio? e chi è Dio? qual è veramente il suo volto? La risposta della Bibbia a questi due quesiti è unitaria e consequenziale: l’uomo è creato ad immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama.
Da questa fondamentale connessione tra Dio e l’uomo ne consegue un’altra: la connessione indissolubile tra spirito e corpo: l’uomo è infatti anima che si esprime nel corpo e corpo che è vivificato da uno spirito immortale. Anche il corpo dell’uomo e della donna ha dunque, per così dire, un carattere teologico, non è semplicemente corpo, e ciò che è biologico nell’uomo non è soltanto biologico, ma è espressione e compimento della nostra umanità. Parimenti, la sessualità umana non sta accanto al nostro essere persona, ma appartiene ad esso. Solo quando la sessualità si è integrata nella persona, riesce a dare un senso a se stessa.
Così, dalle due connessioni, dell’uomo con Dio e nell’uomo del corpo con lo spirito, ne scaturisce una terza: quella tra persona e istituzione. La totalità dell’uomo include infatti la dimensione del tempo, e il "sì" dell’uomo è un andare oltre il momento presente: nella sua interezza, il "sì" significa "sempre", costituisce lo spazio della fedeltà. Solo all’interno di esso può crescere quella fede che dà un futuro e consente che i figli, frutto dell’amore, credano nell’uomo. La libertà del "sì" si rivela dunque libertà capace di assumere ciò che è definitivo: la più grande espressione della libertà non è allora la ricerca del piacere, senza mai giungere a una vera decisione; è invece la capacità di decidersi per un dono definitivo, nel quale la libertà, donandosi, ritrova pienamente se stessa.
In concreto, il "sì" personale e reciproco dell’uomo e della donna dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e al tempo stesso è destinato al dono di una nuova vita. Perciò questo "sì" personale non può non essere un "sì" anche pubblicamente responsabile, con il quale i coniugi assumono la responsabilità pubblica della fedeltà. Nessuno di noi infatti appartiene esclusivamente a se stesso: pertanto ciascuno è chiamato ad assumere nel più intimo di sé la propria responsabilità pubblica. Il matrimonio come istituzione non è quindi una indebita ingerenza della società o dell’autorità, l’imposizione di una forma dal di fuori; è invece esigenza intrinseca del patto dell’amore coniugale.
Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il "matrimonio di prova", fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo. Il suo presupposto è che l’uomo può fare di sé ciò che vuole: il suo corpo diventa così una cosa secondaria dal punto di vista umano, da utilizzare come si vuole. Il libertinismo, che si fa passare per scoperta del corpo e del suo valore, è in realtà un dualismo che rende spregevole il corpo, collocandolo per così dire fuori dall’autentico essere e dignità della persona.
Matrimonio e famiglia nella storia della salvezza
La verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell’uomo, ha trovato attuazione nella storia della salvezza, al cui centro sta la parola: "Dio ama il suo popolo". La rivelazione biblica, infatti, è anzitutto espressione di una storia d’amore, la storia dell’alleanza di Dio con gli uomini: perciò la storia dell’amore e dell’unione di un uomo ed una donna nell’alleanza del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale simbolo della storia della salvezza. Il fatto inesprimibile, il mistero dell’amore di Dio per gli uomini, riceve la sua forma linguistica dal vocabolario del matrimonio e della famiglia, in positivo e in negativo: l’accostarsi di Dio al suo popolo viene presentato infatti nel linguaggio dell’amore sponsale, mentre l’infedeltà di Israele, la sua idolatria, è designata come adulterio e prostituzione.
Nel Nuovo Testamento Dio radicalizza il suo amore fino a divenire Egli stesso, nel suo Figlio, carne della nostra carne, vero uomo. In questo modo l’unione di Dio con l’uomo ha assunto la sua forma suprema, irreversibile e definitiva. E così viene tracciata anche per l’amore umano la sua forma definitiva, quel "sì" reciproco che non può essere revocato: essa non aliena l’uomo, ma lo libera dalle alienazioni della storia per riportarlo alla verità della creazione. La sacramentalità che il matrimonio assume in Cristo significa dunque che il dono della creazione è stato elevato a grazia di redenzione. La grazia di Cristo non si aggiunge dal di fuori alla natura dell’uomo, non le fa violenza, ma la libera e la restaura, proprio nell’innalzarla al di là dei suoi propri confini. E come l’incarnazione del Figlio di Dio rivela il suo vero significato nella croce, così l’amore umano autentico è donazione di sé, non può esistere se vuole sottrarsi alla croce.
Cari fratelli e sorelle, questo legame profondo tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore umano, trova conferma anche in alcune tendenze e sviluppi negativi, di cui tutti avvertiamo il peso. Lo svilimento dell’amore umano, la soppressione dell’autentica capacità di amare si rivela infatti, nel nostro tempo, l’arma più adatta e più efficace per scacciare Dio dall’uomo, per allontanare Dio dallo sguardo e dal cuore dell’uomo. Analogamente, la volontà di "liberare" la natura da Dio conduce a perdere di vista la realtà stessa della natura, compresa la natura dell’uomo, riducendola a un insieme di funzioni, di cui disporre a piacimento per costruire un presunto mondo migliore e una presunta umanità più felice.
I figli
Anche nella generazione dei figli il matrimonio riflette il suo modello divino, l’amore di Dio per l’uomo. Nell’uomo e nella donna la paternità e la maternità, come il corpo e come l’amore, non si lasciano circoscrivere nel biologico: la vita viene data interamente solo quando con la nascita vengono dati anche l’amore e il senso che rendono possibile dire sì a questa vita. Proprio da qui diventa del tutto chiaro quanto sia contrario all’amore umano, alla vocazione profonda dell’uomo e della donna, chiudere sistematicamente la propria unione al dono della vita, e ancora più sopprimere o manomettere la vita che nasce.
Nessun uomo e nessuna donna, però, da soli e unicamente con le proprie forze, possono dare ai figli in maniera adeguata l’amore e il senso della vita. Per poter infatti dire a qualcuno "la tua vita è buona, per quanto io non conosca il tuo futuro", occorrono un’autorità e una credibilità superiori a quello che l’individuo può darsi da solo. Il cristiano sa che questa autorità è conferita a quella famiglia più vasta che Dio, attraverso il Figlio suo Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo, ha creato nella storia degli uomini, cioè alla Chiesa. Egli riconosce qui all’opera quell’amore eterno e indistruttibile che assicura alla vita di ciascuno di noi un senso permanente. Per questo motivo l’edificazione di ogni singola famiglia cristiana si colloca nel contesto della più grande famiglia della Chiesa, che la sostiene e la porta con sé. E reciprocamente la Chiesa viene edificata dalle famiglia, "piccole Chiese domestiche", come le ha chiamate il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 11; Apostolicam actuositatem, 11), riscoprendo un’antica espressione patristica (San Giovanni Crisostomo, In Genesim serm. VI,2; VII,1). Nel medesimo senso la Familiaris consortio afferma che "Il matrimonio cristiano… è il luogo naturale nel quale si compie l’inserimento della persona umana nella grande famiglia della Chiesa" (n. 14).
La famiglia e la Chiesa
Da tutto ciò scaturisce una conseguenza evidente: la famiglia e la Chiesa, in concreto le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale, sono chiamate alla più stretta collaborazione per quel compito fondamentale che è costituito, inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla trasmissione della fede. Sappiamo bene che per un’autentica opera educativa non basta una teoria giusta o una dottrina da comunicare. C’è bisogno di qualcosa di molto più grande e umano, di quella vicinanza, quotidianamente vissuta, che è propria dell’amore e che trova il suo spazio più propizio anzitutto nella comunità familiare, ma poi anche in una parrocchia, o movimento o associazione ecclesiale, in cui si incontrino persone che si prendono cura dei fratelli, in particolare dei bambini e dei giovani, ma anche degli adulti, degli anziani, dei malati, delle stesse famiglie, perché, in Cristo, vogliono loro bene. Il grande Patrono degli educatori, San Giovanni Bosco, ricordava ai suoi figli spirituali che "l’educazione è cosa del cuore e che Dio solo ne è il padrone" (Epistolario, 4,209).
Centrale nell’opera educativa, e specialmente nell’educazione alla fede, che è il vertice della formazione della persona e il suo orizzonte più adeguato, è in concreto la figura del testimone: egli diventa punto di riferimento proprio in quanto sa rendere ragione della speranza che sostiene la sua vita (cfr 1 Pt 3,15), è personalmente coinvolto con la verità che propone. Il testimone, d’altra parte, non rimanda mai a se stesso, ma a qualcosa, o meglio a Qualcuno più grande di lui, che ha incontrato e di cui ha sperimentato l’affidabile bontà. Così ogni educatore e testimone trova il suo modello insuperabile in Gesù Cristo, il grande testimone del Padre, che non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato (cfr Gv 8,28).
Questo è il motivo per il quale alla base della formazione della persona cristiana e della trasmissione della fede sta necessariamente la preghiera, l’amicizia con Cristo e la contemplazione in Lui del volto del Padre. E la stessa cosa vale, evidentemente, per tutto il nostro impegno missionario, in particolare per la pastorale familiare: la Famiglia di Nazareth sia dunque, per le nostre famiglie e per le nostre comunità, oggetto di costante e fiduciosa preghiera, oltre che modello di vita.
Cari fratelli e sorelle, e specialmente voi, cari sacerdoti, conosco la generosità e la dedizione con cui servite il Signore e la Chiesa. Il vostro lavoro quotidiano per la formazione alla fede delle nuove generazioni, in stretta connessione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, come anche per la preparazione al matrimonio e per l’accompagnamento delle famiglie nel loro spesso non facile cammino, in particolare nel grande compito dell’educazione dei figli, è la strada fondamentale per rigenerare sempre di nuovo la Chiesa e anche per vivificare il tessuto sociale di questa nostra amata città di Roma.
La minaccia del relativismo
Continuate dunque, senza lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà che incontrate. Il rapporto educativo è per sua natura una cosa delicata: chiama in causa infatti la libertà dell’altro che, per quanto dolcemente, viene pur sempre provocata a una decisione. Né i genitori, né i sacerdoti o i catechisti, né gli altri educatori possono sostituirsi alla libertà del fanciullo, del ragazzo o del giovane a cui si rivolgono. E specialmente la proposta cristiana interpella a fondo la libertà, chiamandola alla fede e alla conversione. Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione. Dentro a un tale orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza la luce della verità; prima o poi ogni persona è infatti condannata a dubitare della bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune.
E’ chiaro dunque che non soltanto dobbiamo cercare di superare il relativismo nel nostro lavoro di formazione delle persone, ma siamo anche chiamati a contrastare il suo predominio nella società e nella cultura. E’ molto importante perciò, accanto alla parola della Chiesa, la testimonianza e l’impegno pubblico delle famiglie cristiane, specialmente per riaffermare l’intangibilità della vita umana dal concepimento fino al suo termine naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi e amministrativi che sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli, compito essenziale per il nostro comune futuro. Anche per questo impegno vi dico un grazie cordiale.
Sacerdozio e vita consacrata
Un ultimo messaggio che vorrei affidarvi riguarda la cura delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata: sappiamo tutti quanto la Chiesa ne abbia bisogno! Perché queste vocazioni nascano e giungano a maturazione, perché le persone chiamate si mantengano sempre degne della loro vocazione, è decisiva anzitutto la preghiera, che non deve mai mancare in ciascuna famiglia e comunità cristiana. Ma è anche fondamentale la testimonianza di vita dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, la gioia che essi esprimono per essere stati chiamati dal Signore. Ed è ugualmente essenziale l’esempio che i figli ricevono all’interno della propria famiglia e la convinzione delle famiglie stesse che, anche per loro, la vocazione dei propri figli è un grande dono del Signore. La scelta della verginità per amore di Dio e dei fratelli, che è richiesta per il sacerdozio e la vita consacrata, sta infatti insieme con la valorizzazione del matrimonio cristiano: l’uno e l’altra, in due maniere differenti e complementari, rendono in qualche modo visibile il mistero dell’alleanza tra Dio e il suo popolo.
Cari fratelli e sorelle, vi affido queste riflessioni come contributo al vostro lavoro nelle serate del Convegno e poi durante il prossimo anno pastorale. Chiedo al Signore di darvi coraggio ed entusiasmo, perché questa nostra Chiesa di Roma, ciascuna parrocchia, comunità religiosa, associazione o movimento partecipi più intensamente alla gioia e alle fatiche della missione e così ogni famiglia e l’intera comunità cristiana riscopra nell’amore del Signore la chiave che apre la porta dei cuori e che rende possibile una vera educazione alla fede e formazione delle persone. Il mio affetto e la mia benedizione vi accompagnano oggi e per il futuro.
[00706-01.02] [Testo originale: Italiano]

07.06.2005 Una settimana molto piena

Il 29 maggio ho gioito pienamente per la visita del santo Padre Benedetto XVI nella mia amata diocesi di Bari-Bitonto.
Quel giorno era la festa del Corpo e Sangue di Cristo e nella nostra comunita' parrocchiale abbiamo anche festeggiato i bambini che per la prima volta ricevevano la Comunione.
Nel pomeriggio, poi, per la prima volta abbiamo fatto la processione del Corpus Domini nella nostra parrocchia. A motivo dell'anno Eucaristico, abbiamo voluto ripristinare questa vetusta tradizione. Non e' stato facile. Nemmeno la polizia sapeva cosa fosse una processione. Pensavano che fosse una dimostrazione contro qualcuno o qualcosa, oppure una marcia per raccogliere soldi (cosa questa, molto diffusa in HK). Alla fine ci siamo riusciti. Abbiamo celebrato la Liturgia delle Ore con la comunita' inglese e cinese e poi abbiamo iniziato la processione. Abbiamo camminato per circa 30 minuti passando per cosi' dire proprio dalla piazza. Tutti si chiedevano cosa fosse, oppure cosa significasse la parola Santissimo, e cosi' via. Abbiamo poi concluso con la benedizione Eucaristica davanti alla Chiesa, nel nostro parcheggio. E' stata una bella manifestazione di fede e di onore per la Santa Eucaristia.

Domenica scorsa, invece, era la festa della nostra parrocchia, dedicata al Cuore Immacolato di Maria. Il modo in cui celebriamo noi la festa patronale non e' come quella che si celebra in Italia. Le nostre luminarie sono le bandierine colorate che si mettono fuori della chiesa a mo' di cielo colorato. Non abbiamo fuochi pirotecnici. Quelli li organizza il governo per le feste nazionali o culturali. Non abbiamo la banda musicale che suona o che passa per le vie cittadine. Sarebbe una cosa assurda e faticosissima per i musicisti. Non abbiamo nessuna processione esterna.
La nostra festa e' per lo piu' spirituale. Di solito si invita il vescovo per una concelebrazione eucaristica nel pomeriggio. Ma questo noi non lo facciamo perche' ci siamo accorti che aggiungere una messa straordinaria e' inutile. Pochissimi partecipano. Hanno gia' partecipato alla messa mattutina. Per cui durante la mattinata abbiamo celebrato le messe in onore del Cuore Immacolato di Maria. Nel pomeriggio tardo ci siamo radunati presso un ristorante e abbiamo cenato insieme. C'erano 40 tavoli rotondi. Ogni tavolo ha 12 sedie circa. Quindi eravamo quasi un 500 persone. I giovani della parrocchia hanno animato la cena, con canti, danze e estrazioni di premi. Anche le Filippine della nostra comunita' hanno danzato e cantato. Tutto nella gioia e nell'armonia, consapevoli di essere una sola ed unica famiglia. Questa e' la nostra festa!!! Questa e' la nostra festa parrocchiale.

domenica, maggio 29, 2005

29.05.2005 Papa Benedetto a Bari

Questa e' l'omelia che il papa Benedetto XI ha pronunciato a Bari. Sono felicissimo. Peccato che non c'ero fisicamente!!!

CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA SPIANATA MARISABELLA
Alle ore 10.00, raggiunta la Spianata Marisabella, Benedetto XVI celebra la Santa Messa a conclusione del XXIV congresso Eucaristico Nazionale Italiano.
Dopo l’indirizzo di omaggio dell’Arcivescovo di Bari-Bitonto, S.E. Mons. Francesco Cacucci, e dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Santo Padre pronuncia l’omelia che pubblichiamo di seguito:
OMELIA DEL SANTO PADRE
"Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio" (Sal. resp.). L’invito del Salmista, che riecheggia anche nella Sequenza, esprime molto bene il senso di questa Celebrazione eucaristica: ci siamo raccolti per lodare e benedire il Signore. E' questa la ragione che ha spinto la Chiesa italiana a ritrovarsi qui, a Bari, per il Congresso Eucaristico Nazionale. Anch’io ho voluto unirmi oggi a tutti voi per celebrare con particolare rilievo la Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, e così rendere omaggio a Cristo nel Sacramento del suo amore, e rafforzare al tempo stesso i vincoli di comunione che mi legano alla Chiesa che è in Italia e ai suoi Pastori. A questo importante appuntamento ecclesiale avrebbe voluto essere presente anche il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II. Sentiamo che Egli è vicino a noi e con noi glorifica il Cristo, buon Pastore, che egli può ormai contemplare direttamente.
Saluto con affetto tutti voi che partecipate a questa solenne liturgia: il Cardinale Camillo Ruini e gli altri Cardinali presenti, l’Arcivescovo di Bari, Monsignor Francesco Cacucci, i Vescovi della Puglia e quelli convenuti numerosi da ogni parte d’Italia; i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici; in particolare quanti in vari modi hanno cooperato all’organizzazione del Congresso. Saluto altresì le Autorità, che con la loro gradita presenza evidenziano anche come i Congressi Eucaristici facciano parte della storia e della cultura del popolo italiano.
Questo Congresso Eucaristico, che oggi giunge alla sua conclusione, ha inteso ripresentare la domenica come "Pasqua settimanale", espressione dell’identità della comunità cristiana e centro della sua vita e della sua missione. Il tema scelto – "Senza la domenica non possiamo vivere" - ci riporta all'anno 304, quando l’imperatore Diocleziano proibì ai cristiani, sotto pena di morte, di possedere le Scritture, di riunirsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e di costruire luoghi per le loro assemblee. Ad Abitene, una piccola località nell’attuale Tunisia, 49 cristiani furono sorpresi una domenica mentre, riuniti in casa di Ottavio Felice, celebravano l’Eucaristia sfidando i divieti imperiali. Arrestati, vennero condotti a Cartagine per essere interrogati dal Proconsole Anulino. Significativa, tra le altre, la risposta che Emerito diede al Proconsole che gli chiedeva perché mai avessero trasgredito l’ordine dell'imperatore. Egli disse: "Sine dominico non possumus": senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia non possiamo vivere. Ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Dopo atroci torture, i 49 martiri di Abitene furono uccisi. Confermarono così, con l’effusione del sangue, la loro fede. Morirono, ma vinsero: noi ora li ricordiamo nella gloria del Cristo risorto.
E’ un’esperienza, quella dei martiri di Abitene, sulla quale dobbiamo riflettere anche noi, cristiani del ventunesimo secolo. Neppure per noi è facile vivere da cristiani. Da un punto di vista spirituale, il mondo in cui ci troviamo, segnato spesso dal consumismo sfrenato, dall’indifferenza religiosa, da un secolarismo chiuso alla trascendenza, può apparire un deserto non meno aspro di quello "grande e spaventoso" (Dt 8,15) di cui ci ha parlato la prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio. Al popolo ebreo in difficoltà Dio venne in aiuto col dono della manna, per fargli capire che "l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore" (Dt 8,3). Nel Vangelo di oggi Gesù ci ha spiegato a quale pane Dio, mediante il dono della manna, voleva preparare il popolo della Nuova Alleanza. Alludendo all'Eucaristia ha detto: "Questo è il Pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia di questo Pane vivrà in eterno" (Gv 6,58). Il Figlio di Dio, essendosi fatto carne, poteva diventare Pane, ed essere così nutrimento del suo popolo in cammino verso la terra promessa del Cielo.
Abbiamo bisogno di questo Pane per affrontare le fatiche e le stanchezze del viaggio. La Domenica, Giorno del Signore, è l'occasione propizia per attingere forza da Lui, che è il Signore della vita. Il precetto festivo non è quindi semplicemente un dovere imposto dall'esterno. Partecipare alla Celebrazione domenicale e cibarsi del Pane eucaristico è un bisogno per il cristiano, il quale può così trovare l’energia necessaria per il cammino da percorrere. Un cammino, peraltro, non arbitrario: la strada che Dio indica mediante la sua Legge va nella direzione iscritta nell'essenza stessa dell’uomo. Seguirla significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso.
Il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi; anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi. Nel colloquio che ci ha riferito poc'anzi il Vangelo Egli dice: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Gv 6,56). Come non gioire di una simile promessa? Abbiamo sentito però che, a quel primo annuncio, la gente, invece di gioire, cominciò a discutere e a protestare: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (Gv 6,52). Per la verità, quell'atteggiamento s'è ripetuto tante altre volte nel corso della storia. Si direbbe che, in fondo, la gente non voglia avere Dio così vicino, così alla mano, così partecipe delle sue vicende. La gente lo vuole grande e, in definitiva, piuttosto lontano da sé. Si sollevano allora questioni che vogliono dimostrare, alla fine, che una simile vicinanza è impossibile. Ma restano in tutta la loro icastica chiarezza le parole che Cristo pronunciò proprio in quella circostanza: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita" (Gv 6,53). Di fronte al mormorio di protesta, Gesù avrebbe potuto ripiegare su parole rassicuranti: "Amici, avrebbe potuto dire, non preoccupatevi! Ho parlato di carne, ma si tratta soltanto di un simbolo. Ciò che intendo è solo una profonda comunione di sentimenti". Ma Gesù non ha fatto ricorso a simili addolcimenti. Ha mantenuto ferma la propria affermazione, anche di fronte alla defezione di molti suoi discepoli (cfr Gv 6,66). Anzi, Egli si è dimostrato disposto ad accettare persino la defezione degli stessi suoi apostoli, pur di non mutare in nulla la concretezza del suo discorso: "Forse anche voi volete andarvene?" (Gv 6,67), ha domandato. Grazie a Dio Pietro ha dato una risposta che anche noi, oggi, con piena consapevolezza facciamo nostra: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68).
Nell'Eucaristia Cristo è realmente presente tra noi. La sua non è una presenza statica. E' una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a sé. Lo aveva ben compreso Agostino, che, provenendo da una formazione platonica, aveva stentato molto ad accettare la dimensione "incarnata" del cristianesimo. In particolare, egli reagiva di fronte alla prospettiva del "pasto eucaristico", che gli sembrava indegno di Dio: nei pasti comuni, infatti, l’uomo risulta il più forte, in quanto è lui ad assimilare il cibo, facendone un elemento della propria realtà corporea. Solo in un secondo tempo Agostino capì che nell’Eucaristia le cose andavano nel senso esattamente opposto: il centro è Cristo che ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi una cosa sola con lui (cfr Confess., VII,10,16). In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli.
Qui tocchiamo un’ulteriore dimensione dell’Eucaristia, che vorrei ancora raccogliere prima di concludere. Il Cristo che incontriamo nel Sacramento è lo stesso qui a Bari come a Roma, qui in Europa come in America, in Africa, in Asia, in Oceania. E' l’unico e medesimo Cristo che è presente nel Pane eucaristico di ogni luogo della terra. Questo significa che noi possiamo incontrarlo solo insieme con tutti gli altri. Possiamo riceverlo solo nell’unità. Non è forse questo che ci ha detto l’apostolo Paolo nella lettura ascoltata poc’anzi? Scrivendo ai Corinzi egli afferma: "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane" (1 Cor 10,17). La conseguenza è chiara: non possiamo comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra noi. Se vogliamo presentarci a Lui, dobbiamo anche muoverci per andare gli uni incontro agli altri. Per questo bisogna imparare la grande lezione del perdono: non lasciar lavorare nell’animo il tarlo del risentimento, ma aprire il cuore alla magnanimità dell’ascolto dell’altro, della comprensione nei suoi confronti, dell’eventuale accettazione delle sue scuse, della generosa offerta delle proprie.
L’Eucaristia – ripetiamolo – è sacramento dell’unità. Ma purtroppo i cristiani sono divisi, proprio nel sacramento dell’unità. Tanto più dobbiamo, sostenuti dall’Eucaristia, sentirci stimolati a tendere con tutte le forze a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Proprio qui, a Bari, città che custodisce le ossa di San Nicola, terra di incontro e di dialogo con i fratelli cristiani dell’Oriente, vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (cfr Ai rappresentanti delle Chiese e comunità cristiane e di altre religioni non cristiane, 25 aprile 2005). Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità.
Cari amici venuti a Bari da varie parti d’Italia per celebrare questo Congresso eucaristico, noi dobbiamo riscoprire la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di poter partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato. La risurrezione di Cristo avvenne il primo giorno della settimana, che per gli ebrei era il giorno della creazione del mondo. Proprio per questo la domenica era considerata dalla primitiva comunità cristiana come il giorno in cui ha avuto inizio il mondo nuovo, quello in cui, con la vittoria di Cristo sulla morte, è iniziata la nuova creazione. Raccogliendosi intorno alla mensa eucaristica, la comunità veniva modellandosi come nuovo popolo di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia qualificava i cristiani come "coloro che sono giunti alla nuova speranza", e li presentava come persone "viventi secondo la domenica" ("iuxta dominicam viventes"). In tale prospettiva il Vescovo antiocheno si domandava: "Come potremmo vivere senza di Lui, che anche i profeti hanno atteso?" (Ep. ad Magnesios, 9,1-2).
"Come potremmo vivere senza di Lui?". Sentiamo echeggiare in queste parole di Sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di Abitene: "Sine dominico non possumus". Proprio di qui sgorga la nostra preghiera: che anche i cristiani di oggi ritrovino la consapevolezza della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiano trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo "nostra pace" (Ef 2,14). Amen!
[00663-01.01] [Testo originale: Italiano]


venerdì, maggio 27, 2005

27.05.2005 Riflessione di mons. Comastri al Congresso Eucaristico

Congresso eucaristico nazionale di bari


la domenica, giorno del risorto



Pienezza del tempo o vuoto del tempo?

In occasione del Giubileo dell’Anno 2000, da più parti venne sottolineato questo paradosso: mentre noi cattolici celebravamo la “pienezza” del tempo, la società soffriva per una lacerante percezione di “vuoto” del tempo. Lo scrittore Pietro Citati, facendo riferimento alla situazione della società del benessere, è arrivato a dire che il disagio esistenziale è “come un gas diffuso in ogni angolo dell’Occidente”.
Ma già nel 1845 Soren Kierkegard avvertì che il tempo stava diventando banale. È nota la sua folgorante affermazione: “La nave [cioè la società] ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”. E pochi anni dopo Kierkegard, Gustave Flaubert confidò: “Mi sento vecchio, usato, mancante di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciò nonostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.
Nel secolo ventesimo questa patologia è diventata una epidemia. Tutti ricordiamo la conclusione alla quale arrivò lo psicologo Vittorino Andreoli, quando fu chiamato a studiare il caso dei giovani piemontesi, i quali, giocando a tirare sassi dal cavalcavia, uccisero una giovane sposa in viaggio di nozze. Andreoli disse: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti: e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”. La diagnosi è terribile! Però non dimentichiamo qual è il clima che genera questa deriva.
Victor Frankl ci aiuta a scoprire questo clima. Egli, come è noto, è il fondatore della nuova scuola di psichiatria conosciuta come “logoterapia”. Tale scuola tende a recuperare il paziente facendogli scoprire che la sua vita ha un senso, una ragione, uno scopo. Frankl ha scritto: “Ogni epoca ha le sue nevrosi ed ogni epoca necessita di una sua psicoterapia. In realtà noi oggi non siamo più confrontati, come ai tempi di Freud, con una frustrazione sessuale, quanto piuttosto con una frustrazione esistenziale: cioè un abissale sentimento di insignificanza della vita, intimamente connesso ad un senso di vuoto interiore”[1]. E, basandosi su fatti e testimonianze concrete, Frankl osserva. “Le statistiche hanno dimostrato che la seconda causa di morte fra gli studenti americani (la prima è costituita dai sempre più numerosi incidenti automobilistici) è il suicidio. Anzi, il numero dei tentativi di suicidio (con esito non mortale) è di quindici volte più elevato. Di recente – continua Victor Frankl – mi hanno consegnato i risultati di un’apprezzata indagine svolta fra sessanta studenti dell’Università di Idaho, i quali avevano tentato il suicidio. Per l’85% il motivo dominante era che nella loro vita non riuscivano più a scorgere alcun significato. E di questo 85% un’altissima percentuale, il 93%, non presentava carenze fisiche o psichiche: provenivano da buone famiglie, avevano buona salute, riuscivano ottimamente negli studi, non accusavano particolari conflitti nelle relazioni con gli altri. Non si poteva certo parlare di un carente soddisfacimento dei propri bisogni”[2]. Eppure hanno tentato il suicidio. Perché? Perché percepivano la loro vita come un fluire di tempo senza senso. I genitori, gli educatori, gli operatori della comunicazione, i responsabili della società non possono sottovalutare questi dati, che rivelano la presenza nel cuore umano di un bisogno primario di luce che dia senso al tempo della vita, rendendola un’avventura bella e quindi degna di essere vissuta: e questa luce – diciamolo pure senza presunzione ma anche senza esitazione - è la religione!
Mario Soldati, scrittore contemporaneo piuttosto libero da appartenenze religiose, ha avuto l’onestà di dichiarare: “Tutto il guaio del mondo, oggi, è proprio questo: il mondo soffre per aver perduto la religione. E quasi tutta la poesia di oggi è, in un modo o in un altro, rimpianto di una religione perduta”. E Norberto Bobbio, che si è sempre dichiarato ateo, sulla rivista “Micro Mega” alcuni anni fa rilasciò questa singolare confidenza: “Siamo circondati dal mistero. Sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alla domanda ultima [è drammatica ... questa dichiarazione!]. La mia intelligenza è umiliata. E io accetto questa umiliazione”. Ma – tutti lo sappiamo bene per personale esperienza – l’umiliazione non è ancora umiltà! E, proprio per questo, la conclusione di Bobbio è veramente amara: “Io accetto questa umiliazione, ma non cerco di sfuggire ad essa con la fede”. Non voglio esprimere giudizi su questa affermazione; a me sta a cuore sottolineare come in queste parole si percepisca il sentimento della sconfitta della ragione umana staccata dalla fede in Dio. Gli stessi Max Horkheimer e Theodor Adorno, che con Herbert Marcuse sono stati gli esponenti più illustri della Scuola di Francoforte, hanno riconosciuto la sconfitta della ragione che si è proclamata autosufficiente e si è chiusa al mistero. Essi, con disarmante lealtà, hanno dichiarato: “L’Illuminismo, inteso nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma (ecco l’amara e ironica confessione!) la Terra interamente illuminata risplende all’insegna di una trionfale sventura”.
Anche Giuseppe Prezzolini, al pari di Bobbio, al termine della sua lunga vita dichiarò: “Eccomi qui solo, disperato, senza verità, senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a queste domande: dove sono? dove vado? da dove vengo? Non so chi interrogare”. E quasi afferrato da un sussulto e da un sospetto di speranza, aggiunse: “È mai possibile che la cara persona che lavora accanto a me e le immagini di coloro che ho incontrato non siano altro che accidenti meccanici (= fenomeni che accadono meccanicamente) di un mondo che si svolge senza requie e senza scelte in un silenzio spirituale assoluto, dove nulla conta, nulla vale, nulla ha senso?”.
Questi interrogativi feriscono noi credenti in quanto credenti, cioè in quanto portatori di una meravigliosa risposta (la bella notizia!) che è la risposta riguardo al senso della vita: la risposta che hanno cercato Bobbio e Prezzolini. Da una parte, infatti, percepiamo che questa è un’epoca favorevole al Vangelo, perché oggi è letteralmente esplosa una domanda di senso della vita. Dall’altra parte, però, la nostra risposta non riesce ad intercettare la domanda. Questo dramma deve diventare il pungolo che continuamente ci spinge a rivedere e a purificare la nostra pastorale e, di conseguenza, ci spinge a rivedere e a purificare la nostra vita personale e comunitaria: la pastorale, infatti, non è un piano d’azione sganciato dalla vita delle persone, perché non c’è apostolato quando ci sono i progetti d’apostolato ma non ci sono gli apostoli! Ricordiamolo bene!
Termino questa prima parte della mia relazione proponendo una pagina di Friedrich Nietzske. Il filosofo della “morte di Dio” testimonia, suo malgrado, che è proprio la “morte di Dio” che conduce inesorabilmente alla “morte dell’uomo”, cioè allo smarrimento di significato della vita umana. E così Nietzske conferma quanto da più parti viene osservato ai nostri giorni.
Nel “frammento 108” de La gaia scienza Nietzske con la consueta e sprezzante sicumera scrive: “Dio è morto, ma, per come sono fatti gli uomini, ci saranno, forse ancora per millenni, caverne in cui si mostrerà la sua ombra. E noi, dobbiamo vincere anche la sua ombra”[3]. Però, dopo poche pagine, nel “frammento 125”, lo stesso filosofo ci consegna una confidenza sofferta e sanguinante, nella quale l’ateismo non è più presentato come una conquista ma come un altissimo dramma. Egli scrive: “Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che nel chiaro del mattino accese una lanterna, corse al mercato e si mise a gridare senza posa: ‘Cerco Dio! Cerco Dio!’? Poiché proprio lì si trovavano radunati molti di quelli che non credevano in Dio, la sua apparizione suscitò grandi risate. ‘Qualcuno l’ha forse perduto?’, disse uno. ‘Si è smarrito come un bambino?’, disse l’altro. ‘O se ne sta nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato sulla nave? È emigrato?’, così gridavano e ridevano fra loro. Ma l’uomo folle piombò in mezzo a loro e li trapassò con lo sguardo. ‘Dov’è andato Dio?’, esclamò. ‘Voglio dirvelo! Noi lo abbiamo ucciso, voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come abbiamo potuto bere il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto questa terra dalla catena del suo sole? In che direzione essa si muove adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Non vaghiamo come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina?’ ”[4].
Sono interrogativi brucianti e laceranti. Sono interrogativi ai quali Dio ha risposto e risponde con il dono di Gesù Cristo. Ma come arriva oggi a questo mondo il dono di Cristo? Arriva attraverso noi cristiani, chiamati ogni domenica a rinnovare l’esperienza del tempo “pieno di Dio”, per raccontarla a tutti con una vita “riempita di risurrezione”.



Un giorno per ricuperare il senso di tutti i giorni

La domenica, infatti, è il giorno in cui noi cristiani celebriamo e facciamo esperienza della “pienezza” del tempo, cioè del tempo riempito di significato da Dio attraverso la morte e risurrezione di Gesù. La morte e risurrezione di Gesù ci dicono che il tempo va verso un “oltre”, va verso un compimento, va verso una pienezza. Questa pienezza è il nuovo cielo e la nuova terra. È la nuova umanità già presente in germe dentro di noi, della quale Giovanni dice:

“E [Dio] tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4)

Perché dobbiamo attendere un compimento dentro una storia, che ancora presenta ferite evidenti e lacerazioni impressionanti? Noi sappiamo che la salvezza dell’uomo sta nell’essere-con-Dio, perché Dio solo è vita e Dio solo è gioia: Dio solo, pertanto, può riempire la voragine dei desideri presenti nel cuore umano. Ma l’uomo, lo sappiamo bene, ha tagliato i ponti con Dio, usando la libertà per staccarsi orgogliosamente da Lui. E così è entrato nel mondo il peccato. Il peccato è entrato attraverso la libertà umana che è diventata peccato, cioè rifiuto di Dio. E con il peccato è entrata nel mondo la morte-rottura, la morte-lacerazione, la morte-sofferenza, riguardo alla quale l’apostolo Paolo ha esclamato: “Stipendio del peccato è la morte” (Rm 6, 23).
E qual è la reazione di Dio di fronte al peccato dell’uomo? La reazione di Dio è una reazione d’amore: e così Dio ha mandato il Suo Figlio in mezzo a noi, affinché il Figlio potesse ricostruire un ponte di comunione tra Dio e noi. Dice l’apostolo Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Suo Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
E il Figlio di Dio si è fatto uomo: Dio è diventato Emmanuele, cioè Dio con noi! Questo è il cuore del tempo, è il fatto centrale di tutta la storia umana, davanti al quale dovremmo ogni giorno cadere in ginocchio con le lacrime agli occhi.
E Gesù, con tutto il suo essere, è il contrario del nostro peccato[5]. Mentre il peccato è rottura, odio, isolamento orgoglioso, egoismo gaudente e rifiuto di vivere per donarsi, Gesù è il volto stesso dell’Amore. Gesù, infatti, ci ha raccontato (è la parola usata da Giovanni in Gv 1, 18) il mistero di Dio come mistero di infinito Amore, al punto tale che, guardando Gesù, l’apostolo Giovanni arriva a formulare un’equazione divina: Dio è Amore (1Gv 4, 8. 16).
Ma poiché la vita umana è essenzialmente imparare a morire (cioè imparare a esprimere la nostra libertà in un atto che ne riassuma tutte le potenzialità), Gesù, in quanto vero uomo, compie la sua missione soltanto nel suo ultimo atto: nel passaggio cioè da questo mondo infettato e reso opaco dal peccato ... all’abbraccio di filiale amore col Padre: abbraccio che, in Cristo e soltanto in Cristo, ridiventa possibile anche per noi.
Non ci deve sfuggire un fatto: Gesù, fin dall’inizio del suo ministero, parla della “sua ora” (Gv 2, 4), di un’ora “per la quale Egli è venuto” (Gv 12, 27), di un’ora che saluta con gioia esclamando all’inizio della sua Passione: “È giunta l’ora” (Gv 17, 1).
La Chiesa custodisce gelosamente la memoria di quest’ora e nel “Credo”, dopo aver affermato che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”, subito esclama: “ Fu crocifisso per noi, patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”.
Fu crocifisso per noi! Gesù, morendo, si è immerso nell’esperienza drammatica della morte, così come è stata costruita dai nostri peccati; ma, morendo, Gesù ha riempito d’Amore il morire e quindi l’ha riempito di presenza di Dio: con la morte di Cristo, pertanto, la morte è vinta, perché Cristo ha riempito la morte esattamente della forza opposta al peccato che l’ha generata: Gesù l’ha riempita di Amore! Questa è la ragione per cui “per le Sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5).
La Risurrezione infatti è già inclusa nella Crocifissione, così come il frutto è già potenzialmente presente nel seme. Questa verità è chiaramente affermata nel Vangelo di Giovanni, dove la Crocifissione viene presentata come un’elevazione; al punto tale che Gesù, parlando della sua morte, arriva a dire: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32-33). Questa elevazione è la Crocifissione che esplode in Risurrezione, perché nella Crocifissione si spacca la crosta della fragilità umana fatta propria da Cristo; e l’Amore di Dio fa irruzione nell’umanità di Gesù e la trasforma in un corpo risuscitato, in un corpo permeato dalla potenza della vita di Dio.
Per questo motivo l’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, ricorda l’irrinunciabile annuncio cristiano: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati (= immersi) in Cristo Gesù, siamo stati battezzati (= immersi) nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti – conclude l’apostolo – siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6, 3-5).
L’esperienza cristiana, infatti, non è altro che l’esperienza di un incontro con Cristo Crocifisso e Risorto: questo incontro ci guarisce dalle ferite del peccato che continuamente si riaprono; questo incontro semina la vita in noi e dà senso alla nostra vita; questo incontro ci dà la forza e la spinta per attraversare il tempo ancora soggetto alle aggressioni del maligno; questo incontro tiene accesa dentro di noi l’attesa del compimento della liberazione: l’attesa del Signore che sta per venire!
Questo incontro con Gesù Crocifisso e Risorto si rinnova in ogni domenica: la domenica cristiana, infatti, è una immersione del tempo ferito nel tempo sanato, è una terapia del tempo svuotato attraverso l’incontro con Colui che è la pienezza del tempo: Gesù Cristo!


La domenica, giorno del Risorto

Entriamo nel mistero della domenica.
Tutti i Vangeli concordano nell’affermare che Gesù è risorto “il primo giorno dopo il Sabato”.
Matteo scrive: “Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. Ed ecco ci fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. L’angelo disse alle donne\: ‘Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il Crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto. Venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti. E ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto” (Mt 28, 1-7).
Marco, a sua volta, scrive: “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levare del sole. Esse dicevano tra loro: ‘Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?’. Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: ‘Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il Crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ ” (Mc 16, 1-7).
Luca riferisce: “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: ‘Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato’ ” (Lc 23, 55-56. 24, 1-6).
E Giovanni, in qualità di testimone, aggiunge altri dettagli e scrive (fornisco una mia traduzione del testo greco): “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!’. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide i lini sgonfiati [keimena ta otonia], ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide i lini sgonfiati e il sudario che gli era stato posto sul capo, non sgonfiato come i lini, ma separatamente avvolto nello stesso luogo. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.” (Gv 20, 1-8).
Il primo giorno dopo il sabato è, pertanto, il giorno in cui la più grande novità si è compiuta e il tempo è esploso immergendosi nell’eternità di Dio: il primo giorno dopo il sabato è l’inizio del futuro, l’alba del giorno senza tramonto verso il quale noi stiamo camminando; il primo giorno dopo il sabato è il giorno al quale i cristiani non possono rinunciare, perché tutto il nostro cammino va verso quel giorno: va verso la risurrezione con Cristo.
Non solo. Il primo giorno dopo il sabato è il giorno nel quale sono avvenute le apparizioni del Cristo Risorto accompagnate dal dono dello Spirito ai discepoli riuniti. San Luca riferisce che, “in quello stesso giorno” (Lc 24, 13), sul far della sera Gesù apparve a due discepoli che si stavano allontanando da Gerusalemme per dirigersi al villaggio di Emmaus (Lc 24, 13-34). E San Giovanni puntualmente annota che “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’ ” (Gv 20, 19-21).
E Gesù, sempre nel primo giorno dopo il sabato, nella locanda di Emmaus risveglia nella memoria dei discepoli il ricordo del grande dono fatto nel Cenacolo alla vigilia della Passione: l’Eucaristia! Questo dono riempie il primo giorno dopo il sabato ed è un appuntamento con la presenza di Cristo Crocifisso e Risorto, che entra nel tempo e spinge a camminare al di là del tempo orientando il passo dei discepoli verso la festa piena dell’ultima definitiva domenica.
Dice l’evangelista Luca: “Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: ‘Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino’. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista”. (Lc 24, 28-31). Otto giorni dopo, Gesù ritorna a manifestarsi ai discepoli, quasi inaugurando il ritmo della pasqua settimanale: il ritmo, cioè, della settimana cristiana che inizia con la domenica, giorno del Risorto.
Dice Giovanni: “Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Poi disse a Tommaso (= che è ciascuno di noi): ‘Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!’ ” (Gv 20, 26-27).
E, da allora, nell’attesa del ritorno di Gesù, i discepoli si ritrovano insieme nel primo giorno della settimana per custodire e trasmettere di generazione in generazione la luce viva e la novità giovane della Pasqua.


La Pasqua dei cristiani

P. Jounel opportunamente osserva: “La risurrezione del Cristo dai morti, la sua manifestazione nell’assemblea dei discepoli, il pasto messianico preso dal Risorto con i suoi discepoli, il dono dello Spirito Santo e l’invio in missione: tale è la Pasqua cristiana nella sua pienezza. Tale è l’evento centrale della storia della salvezza, che ha segnato per sempre il primo giorno della settimana. Tutto il mistero che la domenica celebrerà è già presente nel giorno di Pasqua; la domenica non sarà null’altro che la celebrazione settimanale del mistero pasquale”[6].
Una celebrazione – diciamolo subito – alla quale un cristiano non può rinunciare se vuole essere cristiano e vivere da cristiano.
I primi cristiani lo capirono subito.
Nella prima Lettera ai Corinzi leggiamo questa significativa testimonianza: “Quanto alla colletta in favore dei santi (= cristiani di Gerusalemme), fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare” (1Cor 16, 1-2). Quando Paolo scrive, siamo attorno all’anno 55 d.C. e la prassi domenicale è già entrata nella vita dei cristiani. Non solo. La domenica è vissuta come giorno della carità ecclesiale, affinché l’incontro con l’Amore di Cristo abbia un riflesso e una manifestazione nell’amore fraterno dei cristiani.
E, nell’anno 57 d.C., il racconto degli Atti ci offre un’altra preziosa tessera, che ricostruisce la vita delle comunità dei nostri primi fratelli di fede. Ecco il racconto: “Nel primo giorno della settimana, essendoci radunati per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno dopo, si intrattenne con i discepoli e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Nella sala superiore dove erano radunati, c’erano molte lampade accese”(At 20, 7-8).
Com’è commovente questa scena! I cristiani, rubavano ore alla notte (perché il primo giorno della settimana non era civilmente riconosciuto come giorno non lavorativo) e si ritrovavano insieme per incontrarsi con Cristo nell’ascolto della Sua Parola, nella Frazione del Pane e nella carità fraterna. Questa vita (ripeto: vita!) doveva stupire coloro che non erano cristiani. E questo è il primo apostolato: suscitare stupore, provocare domande attraverso una vita rinnovata dall’incontro con Gesù Crocifisso e Risorto.
E nell’Apocalisse, ultimo Libro del Nuovo Testamento, troviamo l’unica ma preziosissima attestazione neotestamentaria del nuovo nome del ‘primo giorno dopo il sabato’: il giorno del Signore, kyriaké emera, dies dominica, la domenica! Ecco il testo dell’Apocalisse: “Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della Parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui rapito in estasi nel giorno del Signore [en te kyriaké emera]” (Ap 1, 9-10).
E, a partire dalle Lettere di Sant’Ignazio di Antiochia, il primo giorno dopo il sabato viene semplicemente chiamato: è kyriaké, la domenica!
Intanto la fiaccola domenicale passa da una generazione all’altra come una luce che permette di camminare tra le tenebre.
San Giustino, nato da famiglia pagana nel 108 e convertitosi al cristianesimo attorno all’anno 130, ci dà una splendida fotografia della vita delle comunità cristiane del secondo secolo: “Nel giorno chiamato ‘del sole’ tutti quelli che abitano nelle città o nelle campagne si riuniscono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli (i Vangeli) o gli scritti dei profeti (l’Antico Testamento) finché il tempo lo permette. Poi, quando il lettore ha terminato, chi presiede tiene un discorso in cui ammonisce ed esorta all’imitazione di quegli esempi belli. Poi ci leviamo in piedi tutti insieme e innalziamo preghiere... vengono portati pane, vino e acqua. Chi presiede rivolge al cielo allo stesso modo preghiere ed espressioni di ringraziamento con tutte le sue forze, e il popolo risponde con l’acclamazione ‘Amen’. Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati (letteralmente: ‘di ciò per cui si è reso grazie’), e agli assenti viene inviata la propria parte per mezzo dei diaconi. I facoltosi e quelli che lo desiderano danno liberamente ciascuno quello che vuole e ciò che si raccoglie viene depositato presso colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma ci si prende cura di chiunque sia nel bisogno”.
Ma la testimonianza più forte e più commovente della convinzione con cui i cristiani vivevano la domenica e la sentivano come momento irrinunciabile della loro settimana, si trova negli Atti dei Martiri ed esattamente nel racconto dei Martiri di Abitene (cittadina nella provincia romana detta “Africa proconsularis”, nell’odierna Tunisia). La testimonianza si colloca nel tempo della persecuzione di Diocleziano (anno 304). Un gruppo di cristiani venne arrestato perché celebrava il ‘dominicum’, cioè l’Eucaristia domenicale, sotto la guida del presbitero Saturnino; e vengono condotti davanti al proconsole Anulino. Questi così si rivolge a Saturnino nell’interrogatorio: “Hai agito contro le prescrizioni degli Imperatori e dei Cesari radunando tutti costoro”. E il presbitero Saturnino, ispirato dallo Spirito del Signore, rispose: “Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale (dominicum) senza preoccuparci di esse (= prescrizioni degli Imperatori)”. Il proconsole domandò: “Perché?”. Rispose: “Perché l’Eucaristia domenicale non può essere tralasciata (non potest intermitti dominicum)” (Acta Saturnini, Dativi, et aliorum plurimorum martyrum in Africa IX).
“È talmente forte e inscindibile il legame tra Eucaristia e giorno domenicale - osserva Enzo Bianchi - che, per indicare e l’una e l’altro, si usa in questi Atti lo stesso termine dominicum. Vi è dunque una legge imprescindibile che va seguita a costo della vita: radunarsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e leggere le Scritture. In questo raduno è essenziale la presenza di tutti perché proprio l’Eucaristia domenicale manifesta in modo pieno l’unità e la fraternità dei cristiani fra di loro”[7].
Seguiamo ancora il racconto dei Martiri di Abitene. Il proconsole interroga Emerito: “Nella tua casa sono state tenute riunioni contro il decreto dell’Imperatore?”. Emerito, ripieno di Spirito Santo, disse: “In casa mia abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale”. E quello: “Perché permettevi loro di entrare?”. Replicò: “Perché sono miei fratelli e non avrei potuto loro impedirlo”. “Eppure – riprese il proconsole - tu avevi il dovere di impedirglielo”. E lui: “Non avrei potuto perché noi cristiani non possiamo stare senza l’Eucaristia domenicale (sine dominico non possumus)”.
I Martiri di Abitene testimoniano con il sangue, che nella partecipazione al “dominicum” è implicata l’identità cristiana: un vero cristiano, cioè, non può rinunciare all’Eucaristia domenicale! Ecco la pagina stupenda del racconto dell’interrogatorio del Martire Felice: “La rabbia ferina, sazia dei tormenti dei martiri, la bocca sporca di sangue, dava ormai segni di stanchezza. Ma fattosi avanti al combattimento, Felice, tale di nome ma anche per la sua passione, mentre tutta la schiera del Signore restava salda, incorrotta ed invitta, il tiranno, la mente prostrata, la voce bassa, l’animo e il corpo disfatti, disse: ‘Spero che voi facciate la scelta che vi permetta di continuare a vivere, quella di osservare gli editti’. Di contro, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, quasi a una sola voce dissero: ‘Siamo cristiani: non possiamo osservare altra legge se non quella santa del Signore fino all’effusione del sangue’. Colpito da queste parole, l’avversario diceva a Felice: ‘Non ti chiedo se tu sei cristiano, ma se hai partecipato all’assemblea o se hai qualche libro delle Scritture’. O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha detto: ‘Non dire se sei cristiano’, e poi ha aggiunto: ‘Dimmi invece se hai partecipato all’assemblea’. Come se un cristiano possa essere senza la Pasqua domenicale, o la Pasqua domenicale si possa celebrare senza che ci sia un cristiano! Non lo sai, Satana, che è la Pasqua domenicale a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale, sicché l’uno non può sussistere senza l’altra, e viceversa? Quando senti dire ‘cristiano’, sappi che vi è un’assemblea che celebra il Signore; e quando senti dire ‘assemblea’, sappi che lì c’è il cristiano”.
Queste parole sono il volto della domenica cristiana: un volto da riscoprire per riviverlo oggi con la stessa passione e la stessa convinzione, perché soltanto cristiani così ... profumano di risurrezione e diventano risposta credibile alla domanda di senso della vita, che prepotentemente riaffiora negli uomini d’oggi.


Conclusioni

Nella Lettera Apostolica Dies Domini del 1998, il Santo Padre Giovanni Paolo II così scriveva: “Questo anno (= il Giubileo del 2000) e questo tempo speciale passeranno, in attesa di altri giubilei e di altre scadenze solenni. La domenica, con la sua ordinaria ‘solennità’, resterà a scandire il tempo del pellegrinaggio della Chiesa, fino alla domenica senza tramonto. (...) Gli uomini e le donne del terzo millennio, incontrando la Chiesa che ogni domenica celebra gioiosamente il mistero da cui attinge tutta la sua vita, possano incontrare lo stesso Cristo Risorto. E i suoi discepoli, rinnovandosi costantemente nel memoriale settimanale della Pasqua, siano annunciatori sempre più credibili del Vangelo che salva e costruttori operosi della civiltà dell’amore” (Dies Domini, 87).

1) Perché questo accada è necessario che si percepisca la domenica non primariamente come un precetto, ma come un dono del Signore. Infatti la partecipazione comunitaria all’Eucaristia, che è il cuore della domenica, è un privilegio: e proprio perché è un privilegio ... il cristiano deve sentire l’obbligo interiore di parteciparvi. Se la nostra catechesi non riesce a trasmettere questa comprensione della domenica, il precetto apparirà odioso e incomprensibile e infruttuoso.
2) La domenica è il giorno del Signore e non ‘un’ora del Signore’: bisogna ridare ai cristiani la consapevolezza che il tempo che ci viene concesso di vivere acquista un senso e una bellezza e un fascino soltanto quando viene vissuto come kairós, cioè come opportunità di rispondere all’amore di Dio, che, in Cristo, già ci è stato offerto in modo sovrabbondante (‘eccessivo’ diceva S. Francesco). Il giorno del Signore è l’esplosione di un bisogno d’amare che deve restare acceso nell’intera settimana: per questo motivo tutta la domenica deve essere segnata dalle opere di carità in serena ma decisa alternativa alla domenica pagana, che si sta costruendo con i suoi riti e le sue assemblee.
3) Il giorno del Signore nasce da una con-vocazione, cioè da una chiamata a radunarsi per esprimere il mistero della Chiesa come famiglia che vive un’unica vita: la vita di Dio, la vita dell’amore e della comunione. Partecipare abitualmente in modo isolato all’Eucaristia (quasi sfuggendo la comunità!) è tradire il senso della domenica e il senso della Chiesa come con-vocazione. Bisogna che riscopriamo il significato profondo del radunarsi per l’Eucaristia: il radunarsi è epifania-manifestazione del mistero di Dio presente in noi e, pertanto, il radunarsi è l’antidoto alla solitudine e all’egoismo che caratterizza la società senza Dio. Nella Didascalia Apostolorum leggiamo: “Quando insegni, o Vescovo, ordina e persuadi il popolo ad essere fedele nel radunarsi in assemblea, a non mancare mai, a con-venire sempre per non restringere la Chiesa e diminuire il Corpo di Cristo sottraendosi all’assemblea. Poiché siete membra di Cristo, non disperdetevi dalla Chiesa non riunendovi; infatti poiché avete in Cristo il vostro capo ... non trascuratevi e non private il Salvatore delle sue membra, non lacerate e non disperdete il Suo Corpo non partecipando all’assemblea; non vogliate anteporre alla Parola di Dio i bisogni della vita temporale, ma il giorno di domenica, mettendo da parte ogni cosa, affrettatevi alla Chiesa [ekklesía]. Infatti quale giustificazione potrà presentare a Dio chi non si reca in questo stesso giorno in assemblea ad ascoltare la Parola di salvezza e a nutrirsi del Cibo divino che dura in eterno?” (Didascalia Apostolorum II, 59, 1-3).
4) La con-vocazione eucaristica svela la comunione che lega i cristiani gli uni gli altri e, nello stesso tempo, tiene desta l’attesa del ritorno di Gesù, che porterà a compimento la salvezza trasfigurando il nostro corpo e abbattendo ogni muro di orgoglio e di egoismo. Pertanto, mentre i cristiani si radunano per celebrare l’Eucaristia domenicale, debbono guardare, sospirando, verso l’ultima domenica e mettere olio nella lampada della loro speranza: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua Risurrezione, mentre aspettiamo la tua venuta”. Questa componente essenziale della vita cristiana (= l’attesa di Gesù) deve essere recuperata e sottolineata opportunamente in ogni domenica.
5) Il giorno del Signore ha bisogno di preparazione, soprattutto per la comprensione della Parola di Dio. Non è possibile arrivare alla domenica senza avere precedentemente incontrato la Parola in appropriati momenti di approccio e di approfondimento. La Liturgia della Parola è, da sempre, la prima mensa: ed è la condizione per capire il segno eucaristico e per gustarne il sapore spirituale. Sant’Ignazio d’Antiochia scrive: “Io mi rifugio nel Vangelo come nella carne di Gesù Cristo” (Philad., 5,1). E San Girolamo afferma: “Io penso che il Corpo di Gesù è anche il suo Vangelo” (Tract. de Ps 145). E Bossuet, in tempi più recenti, arriva a dire: “Il Verbo ha preso come una specie di secondo corpo, voglio dire la Parola del Suo Vangelo” (Secondo sermone per la domenica di quaresima). Partendo da un rinnovato incontro con la Parola di Dio è possibile entrare nel mistero affascinante della domenica per ripetere con i due discepoli di Emmaus: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre Gesù conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32).
Martin Buber (1879-1965), ebreo piissimo, nel suo celebre ‘Cammino dell’uomo’, scrive: “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ‘Dove abita Dio?’ Quelli risero di lui: ‘Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?’. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda e disse:’ Dio abita dove lo si lascia entrare’.”[8]
Martin Buber conclude: “Ecco qui ciò che conta in ultima analisi: lasciare entrare Dio”[9].
Vale anche per noi: ciò che conta è lasciar entrare Dio nella nostra vita, spalancando le porte del cuore a Gesù Crocifisso e Risorto.


+ ANGELO COMASTRI
Presidente della Fabbrica di San Pietro
Vicario Generale del Santo Padre per la Città del Vaticano

[1] V. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, Torino, L.D.C., 1982, p. 9.
[2] V. Frankl, cit., p. 13
[3] F. Nietzske, La gaia scienza, BUR, Milano, 2000, p. 191.
[4] F. Nietzske, cit., p. 206.
[5] R. Troifontaines, Non morirò, Edizioni Paoline, Roma, 1963, p. 212.
[6] P. Jounel, Le dimanches et la semaine, in A.G. Martimont. L’Eglise en prière, IV: La liturgie et le temps, Tournai, 1983, p.24
[7] E. Bianchi, Giorno del Signore - Giorno dell’uomo, Milano, Piemme, 1994, p. 172
[8] M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qigajon Bose, 1990, p. 64.
[9] M. Buber, op. cit., p. 64.