Angolo Musicale

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domenica, maggio 29, 2005

29.05.2005 Papa Benedetto a Bari

Questa e' l'omelia che il papa Benedetto XI ha pronunciato a Bari. Sono felicissimo. Peccato che non c'ero fisicamente!!!

CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA SPIANATA MARISABELLA
Alle ore 10.00, raggiunta la Spianata Marisabella, Benedetto XVI celebra la Santa Messa a conclusione del XXIV congresso Eucaristico Nazionale Italiano.
Dopo l’indirizzo di omaggio dell’Arcivescovo di Bari-Bitonto, S.E. Mons. Francesco Cacucci, e dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Santo Padre pronuncia l’omelia che pubblichiamo di seguito:
OMELIA DEL SANTO PADRE
"Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio" (Sal. resp.). L’invito del Salmista, che riecheggia anche nella Sequenza, esprime molto bene il senso di questa Celebrazione eucaristica: ci siamo raccolti per lodare e benedire il Signore. E' questa la ragione che ha spinto la Chiesa italiana a ritrovarsi qui, a Bari, per il Congresso Eucaristico Nazionale. Anch’io ho voluto unirmi oggi a tutti voi per celebrare con particolare rilievo la Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, e così rendere omaggio a Cristo nel Sacramento del suo amore, e rafforzare al tempo stesso i vincoli di comunione che mi legano alla Chiesa che è in Italia e ai suoi Pastori. A questo importante appuntamento ecclesiale avrebbe voluto essere presente anche il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II. Sentiamo che Egli è vicino a noi e con noi glorifica il Cristo, buon Pastore, che egli può ormai contemplare direttamente.
Saluto con affetto tutti voi che partecipate a questa solenne liturgia: il Cardinale Camillo Ruini e gli altri Cardinali presenti, l’Arcivescovo di Bari, Monsignor Francesco Cacucci, i Vescovi della Puglia e quelli convenuti numerosi da ogni parte d’Italia; i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici; in particolare quanti in vari modi hanno cooperato all’organizzazione del Congresso. Saluto altresì le Autorità, che con la loro gradita presenza evidenziano anche come i Congressi Eucaristici facciano parte della storia e della cultura del popolo italiano.
Questo Congresso Eucaristico, che oggi giunge alla sua conclusione, ha inteso ripresentare la domenica come "Pasqua settimanale", espressione dell’identità della comunità cristiana e centro della sua vita e della sua missione. Il tema scelto – "Senza la domenica non possiamo vivere" - ci riporta all'anno 304, quando l’imperatore Diocleziano proibì ai cristiani, sotto pena di morte, di possedere le Scritture, di riunirsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e di costruire luoghi per le loro assemblee. Ad Abitene, una piccola località nell’attuale Tunisia, 49 cristiani furono sorpresi una domenica mentre, riuniti in casa di Ottavio Felice, celebravano l’Eucaristia sfidando i divieti imperiali. Arrestati, vennero condotti a Cartagine per essere interrogati dal Proconsole Anulino. Significativa, tra le altre, la risposta che Emerito diede al Proconsole che gli chiedeva perché mai avessero trasgredito l’ordine dell'imperatore. Egli disse: "Sine dominico non possumus": senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia non possiamo vivere. Ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Dopo atroci torture, i 49 martiri di Abitene furono uccisi. Confermarono così, con l’effusione del sangue, la loro fede. Morirono, ma vinsero: noi ora li ricordiamo nella gloria del Cristo risorto.
E’ un’esperienza, quella dei martiri di Abitene, sulla quale dobbiamo riflettere anche noi, cristiani del ventunesimo secolo. Neppure per noi è facile vivere da cristiani. Da un punto di vista spirituale, il mondo in cui ci troviamo, segnato spesso dal consumismo sfrenato, dall’indifferenza religiosa, da un secolarismo chiuso alla trascendenza, può apparire un deserto non meno aspro di quello "grande e spaventoso" (Dt 8,15) di cui ci ha parlato la prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio. Al popolo ebreo in difficoltà Dio venne in aiuto col dono della manna, per fargli capire che "l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore" (Dt 8,3). Nel Vangelo di oggi Gesù ci ha spiegato a quale pane Dio, mediante il dono della manna, voleva preparare il popolo della Nuova Alleanza. Alludendo all'Eucaristia ha detto: "Questo è il Pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia di questo Pane vivrà in eterno" (Gv 6,58). Il Figlio di Dio, essendosi fatto carne, poteva diventare Pane, ed essere così nutrimento del suo popolo in cammino verso la terra promessa del Cielo.
Abbiamo bisogno di questo Pane per affrontare le fatiche e le stanchezze del viaggio. La Domenica, Giorno del Signore, è l'occasione propizia per attingere forza da Lui, che è il Signore della vita. Il precetto festivo non è quindi semplicemente un dovere imposto dall'esterno. Partecipare alla Celebrazione domenicale e cibarsi del Pane eucaristico è un bisogno per il cristiano, il quale può così trovare l’energia necessaria per il cammino da percorrere. Un cammino, peraltro, non arbitrario: la strada che Dio indica mediante la sua Legge va nella direzione iscritta nell'essenza stessa dell’uomo. Seguirla significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso.
Il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi; anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi. Nel colloquio che ci ha riferito poc'anzi il Vangelo Egli dice: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Gv 6,56). Come non gioire di una simile promessa? Abbiamo sentito però che, a quel primo annuncio, la gente, invece di gioire, cominciò a discutere e a protestare: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (Gv 6,52). Per la verità, quell'atteggiamento s'è ripetuto tante altre volte nel corso della storia. Si direbbe che, in fondo, la gente non voglia avere Dio così vicino, così alla mano, così partecipe delle sue vicende. La gente lo vuole grande e, in definitiva, piuttosto lontano da sé. Si sollevano allora questioni che vogliono dimostrare, alla fine, che una simile vicinanza è impossibile. Ma restano in tutta la loro icastica chiarezza le parole che Cristo pronunciò proprio in quella circostanza: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita" (Gv 6,53). Di fronte al mormorio di protesta, Gesù avrebbe potuto ripiegare su parole rassicuranti: "Amici, avrebbe potuto dire, non preoccupatevi! Ho parlato di carne, ma si tratta soltanto di un simbolo. Ciò che intendo è solo una profonda comunione di sentimenti". Ma Gesù non ha fatto ricorso a simili addolcimenti. Ha mantenuto ferma la propria affermazione, anche di fronte alla defezione di molti suoi discepoli (cfr Gv 6,66). Anzi, Egli si è dimostrato disposto ad accettare persino la defezione degli stessi suoi apostoli, pur di non mutare in nulla la concretezza del suo discorso: "Forse anche voi volete andarvene?" (Gv 6,67), ha domandato. Grazie a Dio Pietro ha dato una risposta che anche noi, oggi, con piena consapevolezza facciamo nostra: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68).
Nell'Eucaristia Cristo è realmente presente tra noi. La sua non è una presenza statica. E' una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a sé. Lo aveva ben compreso Agostino, che, provenendo da una formazione platonica, aveva stentato molto ad accettare la dimensione "incarnata" del cristianesimo. In particolare, egli reagiva di fronte alla prospettiva del "pasto eucaristico", che gli sembrava indegno di Dio: nei pasti comuni, infatti, l’uomo risulta il più forte, in quanto è lui ad assimilare il cibo, facendone un elemento della propria realtà corporea. Solo in un secondo tempo Agostino capì che nell’Eucaristia le cose andavano nel senso esattamente opposto: il centro è Cristo che ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi una cosa sola con lui (cfr Confess., VII,10,16). In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli.
Qui tocchiamo un’ulteriore dimensione dell’Eucaristia, che vorrei ancora raccogliere prima di concludere. Il Cristo che incontriamo nel Sacramento è lo stesso qui a Bari come a Roma, qui in Europa come in America, in Africa, in Asia, in Oceania. E' l’unico e medesimo Cristo che è presente nel Pane eucaristico di ogni luogo della terra. Questo significa che noi possiamo incontrarlo solo insieme con tutti gli altri. Possiamo riceverlo solo nell’unità. Non è forse questo che ci ha detto l’apostolo Paolo nella lettura ascoltata poc’anzi? Scrivendo ai Corinzi egli afferma: "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane" (1 Cor 10,17). La conseguenza è chiara: non possiamo comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra noi. Se vogliamo presentarci a Lui, dobbiamo anche muoverci per andare gli uni incontro agli altri. Per questo bisogna imparare la grande lezione del perdono: non lasciar lavorare nell’animo il tarlo del risentimento, ma aprire il cuore alla magnanimità dell’ascolto dell’altro, della comprensione nei suoi confronti, dell’eventuale accettazione delle sue scuse, della generosa offerta delle proprie.
L’Eucaristia – ripetiamolo – è sacramento dell’unità. Ma purtroppo i cristiani sono divisi, proprio nel sacramento dell’unità. Tanto più dobbiamo, sostenuti dall’Eucaristia, sentirci stimolati a tendere con tutte le forze a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Proprio qui, a Bari, città che custodisce le ossa di San Nicola, terra di incontro e di dialogo con i fratelli cristiani dell’Oriente, vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (cfr Ai rappresentanti delle Chiese e comunità cristiane e di altre religioni non cristiane, 25 aprile 2005). Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità.
Cari amici venuti a Bari da varie parti d’Italia per celebrare questo Congresso eucaristico, noi dobbiamo riscoprire la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di poter partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato. La risurrezione di Cristo avvenne il primo giorno della settimana, che per gli ebrei era il giorno della creazione del mondo. Proprio per questo la domenica era considerata dalla primitiva comunità cristiana come il giorno in cui ha avuto inizio il mondo nuovo, quello in cui, con la vittoria di Cristo sulla morte, è iniziata la nuova creazione. Raccogliendosi intorno alla mensa eucaristica, la comunità veniva modellandosi come nuovo popolo di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia qualificava i cristiani come "coloro che sono giunti alla nuova speranza", e li presentava come persone "viventi secondo la domenica" ("iuxta dominicam viventes"). In tale prospettiva il Vescovo antiocheno si domandava: "Come potremmo vivere senza di Lui, che anche i profeti hanno atteso?" (Ep. ad Magnesios, 9,1-2).
"Come potremmo vivere senza di Lui?". Sentiamo echeggiare in queste parole di Sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di Abitene: "Sine dominico non possumus". Proprio di qui sgorga la nostra preghiera: che anche i cristiani di oggi ritrovino la consapevolezza della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiano trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo "nostra pace" (Ef 2,14). Amen!
[00663-01.01] [Testo originale: Italiano]


venerdì, maggio 27, 2005

27.05.2005 Riflessione di mons. Comastri al Congresso Eucaristico

Congresso eucaristico nazionale di bari


la domenica, giorno del risorto



Pienezza del tempo o vuoto del tempo?

In occasione del Giubileo dell’Anno 2000, da più parti venne sottolineato questo paradosso: mentre noi cattolici celebravamo la “pienezza” del tempo, la società soffriva per una lacerante percezione di “vuoto” del tempo. Lo scrittore Pietro Citati, facendo riferimento alla situazione della società del benessere, è arrivato a dire che il disagio esistenziale è “come un gas diffuso in ogni angolo dell’Occidente”.
Ma già nel 1845 Soren Kierkegard avvertì che il tempo stava diventando banale. È nota la sua folgorante affermazione: “La nave [cioè la società] ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”. E pochi anni dopo Kierkegard, Gustave Flaubert confidò: “Mi sento vecchio, usato, mancante di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciò nonostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.
Nel secolo ventesimo questa patologia è diventata una epidemia. Tutti ricordiamo la conclusione alla quale arrivò lo psicologo Vittorino Andreoli, quando fu chiamato a studiare il caso dei giovani piemontesi, i quali, giocando a tirare sassi dal cavalcavia, uccisero una giovane sposa in viaggio di nozze. Andreoli disse: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti: e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”. La diagnosi è terribile! Però non dimentichiamo qual è il clima che genera questa deriva.
Victor Frankl ci aiuta a scoprire questo clima. Egli, come è noto, è il fondatore della nuova scuola di psichiatria conosciuta come “logoterapia”. Tale scuola tende a recuperare il paziente facendogli scoprire che la sua vita ha un senso, una ragione, uno scopo. Frankl ha scritto: “Ogni epoca ha le sue nevrosi ed ogni epoca necessita di una sua psicoterapia. In realtà noi oggi non siamo più confrontati, come ai tempi di Freud, con una frustrazione sessuale, quanto piuttosto con una frustrazione esistenziale: cioè un abissale sentimento di insignificanza della vita, intimamente connesso ad un senso di vuoto interiore”[1]. E, basandosi su fatti e testimonianze concrete, Frankl osserva. “Le statistiche hanno dimostrato che la seconda causa di morte fra gli studenti americani (la prima è costituita dai sempre più numerosi incidenti automobilistici) è il suicidio. Anzi, il numero dei tentativi di suicidio (con esito non mortale) è di quindici volte più elevato. Di recente – continua Victor Frankl – mi hanno consegnato i risultati di un’apprezzata indagine svolta fra sessanta studenti dell’Università di Idaho, i quali avevano tentato il suicidio. Per l’85% il motivo dominante era che nella loro vita non riuscivano più a scorgere alcun significato. E di questo 85% un’altissima percentuale, il 93%, non presentava carenze fisiche o psichiche: provenivano da buone famiglie, avevano buona salute, riuscivano ottimamente negli studi, non accusavano particolari conflitti nelle relazioni con gli altri. Non si poteva certo parlare di un carente soddisfacimento dei propri bisogni”[2]. Eppure hanno tentato il suicidio. Perché? Perché percepivano la loro vita come un fluire di tempo senza senso. I genitori, gli educatori, gli operatori della comunicazione, i responsabili della società non possono sottovalutare questi dati, che rivelano la presenza nel cuore umano di un bisogno primario di luce che dia senso al tempo della vita, rendendola un’avventura bella e quindi degna di essere vissuta: e questa luce – diciamolo pure senza presunzione ma anche senza esitazione - è la religione!
Mario Soldati, scrittore contemporaneo piuttosto libero da appartenenze religiose, ha avuto l’onestà di dichiarare: “Tutto il guaio del mondo, oggi, è proprio questo: il mondo soffre per aver perduto la religione. E quasi tutta la poesia di oggi è, in un modo o in un altro, rimpianto di una religione perduta”. E Norberto Bobbio, che si è sempre dichiarato ateo, sulla rivista “Micro Mega” alcuni anni fa rilasciò questa singolare confidenza: “Siamo circondati dal mistero. Sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alla domanda ultima [è drammatica ... questa dichiarazione!]. La mia intelligenza è umiliata. E io accetto questa umiliazione”. Ma – tutti lo sappiamo bene per personale esperienza – l’umiliazione non è ancora umiltà! E, proprio per questo, la conclusione di Bobbio è veramente amara: “Io accetto questa umiliazione, ma non cerco di sfuggire ad essa con la fede”. Non voglio esprimere giudizi su questa affermazione; a me sta a cuore sottolineare come in queste parole si percepisca il sentimento della sconfitta della ragione umana staccata dalla fede in Dio. Gli stessi Max Horkheimer e Theodor Adorno, che con Herbert Marcuse sono stati gli esponenti più illustri della Scuola di Francoforte, hanno riconosciuto la sconfitta della ragione che si è proclamata autosufficiente e si è chiusa al mistero. Essi, con disarmante lealtà, hanno dichiarato: “L’Illuminismo, inteso nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma (ecco l’amara e ironica confessione!) la Terra interamente illuminata risplende all’insegna di una trionfale sventura”.
Anche Giuseppe Prezzolini, al pari di Bobbio, al termine della sua lunga vita dichiarò: “Eccomi qui solo, disperato, senza verità, senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a queste domande: dove sono? dove vado? da dove vengo? Non so chi interrogare”. E quasi afferrato da un sussulto e da un sospetto di speranza, aggiunse: “È mai possibile che la cara persona che lavora accanto a me e le immagini di coloro che ho incontrato non siano altro che accidenti meccanici (= fenomeni che accadono meccanicamente) di un mondo che si svolge senza requie e senza scelte in un silenzio spirituale assoluto, dove nulla conta, nulla vale, nulla ha senso?”.
Questi interrogativi feriscono noi credenti in quanto credenti, cioè in quanto portatori di una meravigliosa risposta (la bella notizia!) che è la risposta riguardo al senso della vita: la risposta che hanno cercato Bobbio e Prezzolini. Da una parte, infatti, percepiamo che questa è un’epoca favorevole al Vangelo, perché oggi è letteralmente esplosa una domanda di senso della vita. Dall’altra parte, però, la nostra risposta non riesce ad intercettare la domanda. Questo dramma deve diventare il pungolo che continuamente ci spinge a rivedere e a purificare la nostra pastorale e, di conseguenza, ci spinge a rivedere e a purificare la nostra vita personale e comunitaria: la pastorale, infatti, non è un piano d’azione sganciato dalla vita delle persone, perché non c’è apostolato quando ci sono i progetti d’apostolato ma non ci sono gli apostoli! Ricordiamolo bene!
Termino questa prima parte della mia relazione proponendo una pagina di Friedrich Nietzske. Il filosofo della “morte di Dio” testimonia, suo malgrado, che è proprio la “morte di Dio” che conduce inesorabilmente alla “morte dell’uomo”, cioè allo smarrimento di significato della vita umana. E così Nietzske conferma quanto da più parti viene osservato ai nostri giorni.
Nel “frammento 108” de La gaia scienza Nietzske con la consueta e sprezzante sicumera scrive: “Dio è morto, ma, per come sono fatti gli uomini, ci saranno, forse ancora per millenni, caverne in cui si mostrerà la sua ombra. E noi, dobbiamo vincere anche la sua ombra”[3]. Però, dopo poche pagine, nel “frammento 125”, lo stesso filosofo ci consegna una confidenza sofferta e sanguinante, nella quale l’ateismo non è più presentato come una conquista ma come un altissimo dramma. Egli scrive: “Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che nel chiaro del mattino accese una lanterna, corse al mercato e si mise a gridare senza posa: ‘Cerco Dio! Cerco Dio!’? Poiché proprio lì si trovavano radunati molti di quelli che non credevano in Dio, la sua apparizione suscitò grandi risate. ‘Qualcuno l’ha forse perduto?’, disse uno. ‘Si è smarrito come un bambino?’, disse l’altro. ‘O se ne sta nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato sulla nave? È emigrato?’, così gridavano e ridevano fra loro. Ma l’uomo folle piombò in mezzo a loro e li trapassò con lo sguardo. ‘Dov’è andato Dio?’, esclamò. ‘Voglio dirvelo! Noi lo abbiamo ucciso, voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come abbiamo potuto bere il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto questa terra dalla catena del suo sole? In che direzione essa si muove adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Non vaghiamo come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina?’ ”[4].
Sono interrogativi brucianti e laceranti. Sono interrogativi ai quali Dio ha risposto e risponde con il dono di Gesù Cristo. Ma come arriva oggi a questo mondo il dono di Cristo? Arriva attraverso noi cristiani, chiamati ogni domenica a rinnovare l’esperienza del tempo “pieno di Dio”, per raccontarla a tutti con una vita “riempita di risurrezione”.



Un giorno per ricuperare il senso di tutti i giorni

La domenica, infatti, è il giorno in cui noi cristiani celebriamo e facciamo esperienza della “pienezza” del tempo, cioè del tempo riempito di significato da Dio attraverso la morte e risurrezione di Gesù. La morte e risurrezione di Gesù ci dicono che il tempo va verso un “oltre”, va verso un compimento, va verso una pienezza. Questa pienezza è il nuovo cielo e la nuova terra. È la nuova umanità già presente in germe dentro di noi, della quale Giovanni dice:

“E [Dio] tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4)

Perché dobbiamo attendere un compimento dentro una storia, che ancora presenta ferite evidenti e lacerazioni impressionanti? Noi sappiamo che la salvezza dell’uomo sta nell’essere-con-Dio, perché Dio solo è vita e Dio solo è gioia: Dio solo, pertanto, può riempire la voragine dei desideri presenti nel cuore umano. Ma l’uomo, lo sappiamo bene, ha tagliato i ponti con Dio, usando la libertà per staccarsi orgogliosamente da Lui. E così è entrato nel mondo il peccato. Il peccato è entrato attraverso la libertà umana che è diventata peccato, cioè rifiuto di Dio. E con il peccato è entrata nel mondo la morte-rottura, la morte-lacerazione, la morte-sofferenza, riguardo alla quale l’apostolo Paolo ha esclamato: “Stipendio del peccato è la morte” (Rm 6, 23).
E qual è la reazione di Dio di fronte al peccato dell’uomo? La reazione di Dio è una reazione d’amore: e così Dio ha mandato il Suo Figlio in mezzo a noi, affinché il Figlio potesse ricostruire un ponte di comunione tra Dio e noi. Dice l’apostolo Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Suo Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
E il Figlio di Dio si è fatto uomo: Dio è diventato Emmanuele, cioè Dio con noi! Questo è il cuore del tempo, è il fatto centrale di tutta la storia umana, davanti al quale dovremmo ogni giorno cadere in ginocchio con le lacrime agli occhi.
E Gesù, con tutto il suo essere, è il contrario del nostro peccato[5]. Mentre il peccato è rottura, odio, isolamento orgoglioso, egoismo gaudente e rifiuto di vivere per donarsi, Gesù è il volto stesso dell’Amore. Gesù, infatti, ci ha raccontato (è la parola usata da Giovanni in Gv 1, 18) il mistero di Dio come mistero di infinito Amore, al punto tale che, guardando Gesù, l’apostolo Giovanni arriva a formulare un’equazione divina: Dio è Amore (1Gv 4, 8. 16).
Ma poiché la vita umana è essenzialmente imparare a morire (cioè imparare a esprimere la nostra libertà in un atto che ne riassuma tutte le potenzialità), Gesù, in quanto vero uomo, compie la sua missione soltanto nel suo ultimo atto: nel passaggio cioè da questo mondo infettato e reso opaco dal peccato ... all’abbraccio di filiale amore col Padre: abbraccio che, in Cristo e soltanto in Cristo, ridiventa possibile anche per noi.
Non ci deve sfuggire un fatto: Gesù, fin dall’inizio del suo ministero, parla della “sua ora” (Gv 2, 4), di un’ora “per la quale Egli è venuto” (Gv 12, 27), di un’ora che saluta con gioia esclamando all’inizio della sua Passione: “È giunta l’ora” (Gv 17, 1).
La Chiesa custodisce gelosamente la memoria di quest’ora e nel “Credo”, dopo aver affermato che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”, subito esclama: “ Fu crocifisso per noi, patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”.
Fu crocifisso per noi! Gesù, morendo, si è immerso nell’esperienza drammatica della morte, così come è stata costruita dai nostri peccati; ma, morendo, Gesù ha riempito d’Amore il morire e quindi l’ha riempito di presenza di Dio: con la morte di Cristo, pertanto, la morte è vinta, perché Cristo ha riempito la morte esattamente della forza opposta al peccato che l’ha generata: Gesù l’ha riempita di Amore! Questa è la ragione per cui “per le Sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5).
La Risurrezione infatti è già inclusa nella Crocifissione, così come il frutto è già potenzialmente presente nel seme. Questa verità è chiaramente affermata nel Vangelo di Giovanni, dove la Crocifissione viene presentata come un’elevazione; al punto tale che Gesù, parlando della sua morte, arriva a dire: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32-33). Questa elevazione è la Crocifissione che esplode in Risurrezione, perché nella Crocifissione si spacca la crosta della fragilità umana fatta propria da Cristo; e l’Amore di Dio fa irruzione nell’umanità di Gesù e la trasforma in un corpo risuscitato, in un corpo permeato dalla potenza della vita di Dio.
Per questo motivo l’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, ricorda l’irrinunciabile annuncio cristiano: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati (= immersi) in Cristo Gesù, siamo stati battezzati (= immersi) nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti – conclude l’apostolo – siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6, 3-5).
L’esperienza cristiana, infatti, non è altro che l’esperienza di un incontro con Cristo Crocifisso e Risorto: questo incontro ci guarisce dalle ferite del peccato che continuamente si riaprono; questo incontro semina la vita in noi e dà senso alla nostra vita; questo incontro ci dà la forza e la spinta per attraversare il tempo ancora soggetto alle aggressioni del maligno; questo incontro tiene accesa dentro di noi l’attesa del compimento della liberazione: l’attesa del Signore che sta per venire!
Questo incontro con Gesù Crocifisso e Risorto si rinnova in ogni domenica: la domenica cristiana, infatti, è una immersione del tempo ferito nel tempo sanato, è una terapia del tempo svuotato attraverso l’incontro con Colui che è la pienezza del tempo: Gesù Cristo!


La domenica, giorno del Risorto

Entriamo nel mistero della domenica.
Tutti i Vangeli concordano nell’affermare che Gesù è risorto “il primo giorno dopo il Sabato”.
Matteo scrive: “Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. Ed ecco ci fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. L’angelo disse alle donne\: ‘Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il Crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto. Venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti. E ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto” (Mt 28, 1-7).
Marco, a sua volta, scrive: “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levare del sole. Esse dicevano tra loro: ‘Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?’. Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: ‘Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il Crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ ” (Mc 16, 1-7).
Luca riferisce: “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: ‘Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato’ ” (Lc 23, 55-56. 24, 1-6).
E Giovanni, in qualità di testimone, aggiunge altri dettagli e scrive (fornisco una mia traduzione del testo greco): “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!’. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide i lini sgonfiati [keimena ta otonia], ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide i lini sgonfiati e il sudario che gli era stato posto sul capo, non sgonfiato come i lini, ma separatamente avvolto nello stesso luogo. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.” (Gv 20, 1-8).
Il primo giorno dopo il sabato è, pertanto, il giorno in cui la più grande novità si è compiuta e il tempo è esploso immergendosi nell’eternità di Dio: il primo giorno dopo il sabato è l’inizio del futuro, l’alba del giorno senza tramonto verso il quale noi stiamo camminando; il primo giorno dopo il sabato è il giorno al quale i cristiani non possono rinunciare, perché tutto il nostro cammino va verso quel giorno: va verso la risurrezione con Cristo.
Non solo. Il primo giorno dopo il sabato è il giorno nel quale sono avvenute le apparizioni del Cristo Risorto accompagnate dal dono dello Spirito ai discepoli riuniti. San Luca riferisce che, “in quello stesso giorno” (Lc 24, 13), sul far della sera Gesù apparve a due discepoli che si stavano allontanando da Gerusalemme per dirigersi al villaggio di Emmaus (Lc 24, 13-34). E San Giovanni puntualmente annota che “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’ ” (Gv 20, 19-21).
E Gesù, sempre nel primo giorno dopo il sabato, nella locanda di Emmaus risveglia nella memoria dei discepoli il ricordo del grande dono fatto nel Cenacolo alla vigilia della Passione: l’Eucaristia! Questo dono riempie il primo giorno dopo il sabato ed è un appuntamento con la presenza di Cristo Crocifisso e Risorto, che entra nel tempo e spinge a camminare al di là del tempo orientando il passo dei discepoli verso la festa piena dell’ultima definitiva domenica.
Dice l’evangelista Luca: “Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: ‘Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino’. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista”. (Lc 24, 28-31). Otto giorni dopo, Gesù ritorna a manifestarsi ai discepoli, quasi inaugurando il ritmo della pasqua settimanale: il ritmo, cioè, della settimana cristiana che inizia con la domenica, giorno del Risorto.
Dice Giovanni: “Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Poi disse a Tommaso (= che è ciascuno di noi): ‘Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!’ ” (Gv 20, 26-27).
E, da allora, nell’attesa del ritorno di Gesù, i discepoli si ritrovano insieme nel primo giorno della settimana per custodire e trasmettere di generazione in generazione la luce viva e la novità giovane della Pasqua.


La Pasqua dei cristiani

P. Jounel opportunamente osserva: “La risurrezione del Cristo dai morti, la sua manifestazione nell’assemblea dei discepoli, il pasto messianico preso dal Risorto con i suoi discepoli, il dono dello Spirito Santo e l’invio in missione: tale è la Pasqua cristiana nella sua pienezza. Tale è l’evento centrale della storia della salvezza, che ha segnato per sempre il primo giorno della settimana. Tutto il mistero che la domenica celebrerà è già presente nel giorno di Pasqua; la domenica non sarà null’altro che la celebrazione settimanale del mistero pasquale”[6].
Una celebrazione – diciamolo subito – alla quale un cristiano non può rinunciare se vuole essere cristiano e vivere da cristiano.
I primi cristiani lo capirono subito.
Nella prima Lettera ai Corinzi leggiamo questa significativa testimonianza: “Quanto alla colletta in favore dei santi (= cristiani di Gerusalemme), fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare” (1Cor 16, 1-2). Quando Paolo scrive, siamo attorno all’anno 55 d.C. e la prassi domenicale è già entrata nella vita dei cristiani. Non solo. La domenica è vissuta come giorno della carità ecclesiale, affinché l’incontro con l’Amore di Cristo abbia un riflesso e una manifestazione nell’amore fraterno dei cristiani.
E, nell’anno 57 d.C., il racconto degli Atti ci offre un’altra preziosa tessera, che ricostruisce la vita delle comunità dei nostri primi fratelli di fede. Ecco il racconto: “Nel primo giorno della settimana, essendoci radunati per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno dopo, si intrattenne con i discepoli e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Nella sala superiore dove erano radunati, c’erano molte lampade accese”(At 20, 7-8).
Com’è commovente questa scena! I cristiani, rubavano ore alla notte (perché il primo giorno della settimana non era civilmente riconosciuto come giorno non lavorativo) e si ritrovavano insieme per incontrarsi con Cristo nell’ascolto della Sua Parola, nella Frazione del Pane e nella carità fraterna. Questa vita (ripeto: vita!) doveva stupire coloro che non erano cristiani. E questo è il primo apostolato: suscitare stupore, provocare domande attraverso una vita rinnovata dall’incontro con Gesù Crocifisso e Risorto.
E nell’Apocalisse, ultimo Libro del Nuovo Testamento, troviamo l’unica ma preziosissima attestazione neotestamentaria del nuovo nome del ‘primo giorno dopo il sabato’: il giorno del Signore, kyriaké emera, dies dominica, la domenica! Ecco il testo dell’Apocalisse: “Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della Parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui rapito in estasi nel giorno del Signore [en te kyriaké emera]” (Ap 1, 9-10).
E, a partire dalle Lettere di Sant’Ignazio di Antiochia, il primo giorno dopo il sabato viene semplicemente chiamato: è kyriaké, la domenica!
Intanto la fiaccola domenicale passa da una generazione all’altra come una luce che permette di camminare tra le tenebre.
San Giustino, nato da famiglia pagana nel 108 e convertitosi al cristianesimo attorno all’anno 130, ci dà una splendida fotografia della vita delle comunità cristiane del secondo secolo: “Nel giorno chiamato ‘del sole’ tutti quelli che abitano nelle città o nelle campagne si riuniscono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli (i Vangeli) o gli scritti dei profeti (l’Antico Testamento) finché il tempo lo permette. Poi, quando il lettore ha terminato, chi presiede tiene un discorso in cui ammonisce ed esorta all’imitazione di quegli esempi belli. Poi ci leviamo in piedi tutti insieme e innalziamo preghiere... vengono portati pane, vino e acqua. Chi presiede rivolge al cielo allo stesso modo preghiere ed espressioni di ringraziamento con tutte le sue forze, e il popolo risponde con l’acclamazione ‘Amen’. Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati (letteralmente: ‘di ciò per cui si è reso grazie’), e agli assenti viene inviata la propria parte per mezzo dei diaconi. I facoltosi e quelli che lo desiderano danno liberamente ciascuno quello che vuole e ciò che si raccoglie viene depositato presso colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma ci si prende cura di chiunque sia nel bisogno”.
Ma la testimonianza più forte e più commovente della convinzione con cui i cristiani vivevano la domenica e la sentivano come momento irrinunciabile della loro settimana, si trova negli Atti dei Martiri ed esattamente nel racconto dei Martiri di Abitene (cittadina nella provincia romana detta “Africa proconsularis”, nell’odierna Tunisia). La testimonianza si colloca nel tempo della persecuzione di Diocleziano (anno 304). Un gruppo di cristiani venne arrestato perché celebrava il ‘dominicum’, cioè l’Eucaristia domenicale, sotto la guida del presbitero Saturnino; e vengono condotti davanti al proconsole Anulino. Questi così si rivolge a Saturnino nell’interrogatorio: “Hai agito contro le prescrizioni degli Imperatori e dei Cesari radunando tutti costoro”. E il presbitero Saturnino, ispirato dallo Spirito del Signore, rispose: “Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale (dominicum) senza preoccuparci di esse (= prescrizioni degli Imperatori)”. Il proconsole domandò: “Perché?”. Rispose: “Perché l’Eucaristia domenicale non può essere tralasciata (non potest intermitti dominicum)” (Acta Saturnini, Dativi, et aliorum plurimorum martyrum in Africa IX).
“È talmente forte e inscindibile il legame tra Eucaristia e giorno domenicale - osserva Enzo Bianchi - che, per indicare e l’una e l’altro, si usa in questi Atti lo stesso termine dominicum. Vi è dunque una legge imprescindibile che va seguita a costo della vita: radunarsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e leggere le Scritture. In questo raduno è essenziale la presenza di tutti perché proprio l’Eucaristia domenicale manifesta in modo pieno l’unità e la fraternità dei cristiani fra di loro”[7].
Seguiamo ancora il racconto dei Martiri di Abitene. Il proconsole interroga Emerito: “Nella tua casa sono state tenute riunioni contro il decreto dell’Imperatore?”. Emerito, ripieno di Spirito Santo, disse: “In casa mia abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale”. E quello: “Perché permettevi loro di entrare?”. Replicò: “Perché sono miei fratelli e non avrei potuto loro impedirlo”. “Eppure – riprese il proconsole - tu avevi il dovere di impedirglielo”. E lui: “Non avrei potuto perché noi cristiani non possiamo stare senza l’Eucaristia domenicale (sine dominico non possumus)”.
I Martiri di Abitene testimoniano con il sangue, che nella partecipazione al “dominicum” è implicata l’identità cristiana: un vero cristiano, cioè, non può rinunciare all’Eucaristia domenicale! Ecco la pagina stupenda del racconto dell’interrogatorio del Martire Felice: “La rabbia ferina, sazia dei tormenti dei martiri, la bocca sporca di sangue, dava ormai segni di stanchezza. Ma fattosi avanti al combattimento, Felice, tale di nome ma anche per la sua passione, mentre tutta la schiera del Signore restava salda, incorrotta ed invitta, il tiranno, la mente prostrata, la voce bassa, l’animo e il corpo disfatti, disse: ‘Spero che voi facciate la scelta che vi permetta di continuare a vivere, quella di osservare gli editti’. Di contro, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, quasi a una sola voce dissero: ‘Siamo cristiani: non possiamo osservare altra legge se non quella santa del Signore fino all’effusione del sangue’. Colpito da queste parole, l’avversario diceva a Felice: ‘Non ti chiedo se tu sei cristiano, ma se hai partecipato all’assemblea o se hai qualche libro delle Scritture’. O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha detto: ‘Non dire se sei cristiano’, e poi ha aggiunto: ‘Dimmi invece se hai partecipato all’assemblea’. Come se un cristiano possa essere senza la Pasqua domenicale, o la Pasqua domenicale si possa celebrare senza che ci sia un cristiano! Non lo sai, Satana, che è la Pasqua domenicale a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale, sicché l’uno non può sussistere senza l’altra, e viceversa? Quando senti dire ‘cristiano’, sappi che vi è un’assemblea che celebra il Signore; e quando senti dire ‘assemblea’, sappi che lì c’è il cristiano”.
Queste parole sono il volto della domenica cristiana: un volto da riscoprire per riviverlo oggi con la stessa passione e la stessa convinzione, perché soltanto cristiani così ... profumano di risurrezione e diventano risposta credibile alla domanda di senso della vita, che prepotentemente riaffiora negli uomini d’oggi.


Conclusioni

Nella Lettera Apostolica Dies Domini del 1998, il Santo Padre Giovanni Paolo II così scriveva: “Questo anno (= il Giubileo del 2000) e questo tempo speciale passeranno, in attesa di altri giubilei e di altre scadenze solenni. La domenica, con la sua ordinaria ‘solennità’, resterà a scandire il tempo del pellegrinaggio della Chiesa, fino alla domenica senza tramonto. (...) Gli uomini e le donne del terzo millennio, incontrando la Chiesa che ogni domenica celebra gioiosamente il mistero da cui attinge tutta la sua vita, possano incontrare lo stesso Cristo Risorto. E i suoi discepoli, rinnovandosi costantemente nel memoriale settimanale della Pasqua, siano annunciatori sempre più credibili del Vangelo che salva e costruttori operosi della civiltà dell’amore” (Dies Domini, 87).

1) Perché questo accada è necessario che si percepisca la domenica non primariamente come un precetto, ma come un dono del Signore. Infatti la partecipazione comunitaria all’Eucaristia, che è il cuore della domenica, è un privilegio: e proprio perché è un privilegio ... il cristiano deve sentire l’obbligo interiore di parteciparvi. Se la nostra catechesi non riesce a trasmettere questa comprensione della domenica, il precetto apparirà odioso e incomprensibile e infruttuoso.
2) La domenica è il giorno del Signore e non ‘un’ora del Signore’: bisogna ridare ai cristiani la consapevolezza che il tempo che ci viene concesso di vivere acquista un senso e una bellezza e un fascino soltanto quando viene vissuto come kairós, cioè come opportunità di rispondere all’amore di Dio, che, in Cristo, già ci è stato offerto in modo sovrabbondante (‘eccessivo’ diceva S. Francesco). Il giorno del Signore è l’esplosione di un bisogno d’amare che deve restare acceso nell’intera settimana: per questo motivo tutta la domenica deve essere segnata dalle opere di carità in serena ma decisa alternativa alla domenica pagana, che si sta costruendo con i suoi riti e le sue assemblee.
3) Il giorno del Signore nasce da una con-vocazione, cioè da una chiamata a radunarsi per esprimere il mistero della Chiesa come famiglia che vive un’unica vita: la vita di Dio, la vita dell’amore e della comunione. Partecipare abitualmente in modo isolato all’Eucaristia (quasi sfuggendo la comunità!) è tradire il senso della domenica e il senso della Chiesa come con-vocazione. Bisogna che riscopriamo il significato profondo del radunarsi per l’Eucaristia: il radunarsi è epifania-manifestazione del mistero di Dio presente in noi e, pertanto, il radunarsi è l’antidoto alla solitudine e all’egoismo che caratterizza la società senza Dio. Nella Didascalia Apostolorum leggiamo: “Quando insegni, o Vescovo, ordina e persuadi il popolo ad essere fedele nel radunarsi in assemblea, a non mancare mai, a con-venire sempre per non restringere la Chiesa e diminuire il Corpo di Cristo sottraendosi all’assemblea. Poiché siete membra di Cristo, non disperdetevi dalla Chiesa non riunendovi; infatti poiché avete in Cristo il vostro capo ... non trascuratevi e non private il Salvatore delle sue membra, non lacerate e non disperdete il Suo Corpo non partecipando all’assemblea; non vogliate anteporre alla Parola di Dio i bisogni della vita temporale, ma il giorno di domenica, mettendo da parte ogni cosa, affrettatevi alla Chiesa [ekklesía]. Infatti quale giustificazione potrà presentare a Dio chi non si reca in questo stesso giorno in assemblea ad ascoltare la Parola di salvezza e a nutrirsi del Cibo divino che dura in eterno?” (Didascalia Apostolorum II, 59, 1-3).
4) La con-vocazione eucaristica svela la comunione che lega i cristiani gli uni gli altri e, nello stesso tempo, tiene desta l’attesa del ritorno di Gesù, che porterà a compimento la salvezza trasfigurando il nostro corpo e abbattendo ogni muro di orgoglio e di egoismo. Pertanto, mentre i cristiani si radunano per celebrare l’Eucaristia domenicale, debbono guardare, sospirando, verso l’ultima domenica e mettere olio nella lampada della loro speranza: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua Risurrezione, mentre aspettiamo la tua venuta”. Questa componente essenziale della vita cristiana (= l’attesa di Gesù) deve essere recuperata e sottolineata opportunamente in ogni domenica.
5) Il giorno del Signore ha bisogno di preparazione, soprattutto per la comprensione della Parola di Dio. Non è possibile arrivare alla domenica senza avere precedentemente incontrato la Parola in appropriati momenti di approccio e di approfondimento. La Liturgia della Parola è, da sempre, la prima mensa: ed è la condizione per capire il segno eucaristico e per gustarne il sapore spirituale. Sant’Ignazio d’Antiochia scrive: “Io mi rifugio nel Vangelo come nella carne di Gesù Cristo” (Philad., 5,1). E San Girolamo afferma: “Io penso che il Corpo di Gesù è anche il suo Vangelo” (Tract. de Ps 145). E Bossuet, in tempi più recenti, arriva a dire: “Il Verbo ha preso come una specie di secondo corpo, voglio dire la Parola del Suo Vangelo” (Secondo sermone per la domenica di quaresima). Partendo da un rinnovato incontro con la Parola di Dio è possibile entrare nel mistero affascinante della domenica per ripetere con i due discepoli di Emmaus: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre Gesù conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32).
Martin Buber (1879-1965), ebreo piissimo, nel suo celebre ‘Cammino dell’uomo’, scrive: “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ‘Dove abita Dio?’ Quelli risero di lui: ‘Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?’. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda e disse:’ Dio abita dove lo si lascia entrare’.”[8]
Martin Buber conclude: “Ecco qui ciò che conta in ultima analisi: lasciare entrare Dio”[9].
Vale anche per noi: ciò che conta è lasciar entrare Dio nella nostra vita, spalancando le porte del cuore a Gesù Crocifisso e Risorto.


+ ANGELO COMASTRI
Presidente della Fabbrica di San Pietro
Vicario Generale del Santo Padre per la Città del Vaticano

[1] V. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, Torino, L.D.C., 1982, p. 9.
[2] V. Frankl, cit., p. 13
[3] F. Nietzske, La gaia scienza, BUR, Milano, 2000, p. 191.
[4] F. Nietzske, cit., p. 206.
[5] R. Troifontaines, Non morirò, Edizioni Paoline, Roma, 1963, p. 212.
[6] P. Jounel, Le dimanches et la semaine, in A.G. Martimont. L’Eglise en prière, IV: La liturgie et le temps, Tournai, 1983, p.24
[7] E. Bianchi, Giorno del Signore - Giorno dell’uomo, Milano, Piemme, 1994, p. 172
[8] M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qigajon Bose, 1990, p. 64.
[9] M. Buber, op. cit., p. 64.

sabato, maggio 21, 2005

21.05.2005 Inizio Congresso Eucaristico di Bari

Come figlio della santa Chiesa di Bari, mi unisco con immensa felicita' e gioia alla celebrazione della settimana del Congresso Eucaristico di Bari che sto seguendo via-internet grazie a Sat2000. Pur fisicamente impedito a parteciparvi, poiche' residente in Hong Kong, ringrazio ancora il Signore che mi concede di essere presente con tutto il cuore e con tutta la mia anima. Che il Signore benedica la nostra chiesa locale e la chiesa presente in Italia.

domenica, maggio 15, 2005

15.05.05 Pentecoste

VIENI SANTO SPIRITO!!!!!!!!!!!

Con questa invocazione piena di affetto e di amore abbiamo atteso il dono dello Spirito che oggi ci e' dato. Te ne siamo grati Dio Padre di Misericordia che a tutti coloro che lo chiedono, concedi il dono dello Spirito. Te ne siamo grati Gesu' Risorto che ci fai dono dello Spirito insieme al dono della Pace.

Concedici Dio di ogni bene di camminare sempre nello Spirito e di vivere sempre nello Spirito, in letizia e in gioia per tutti i giorni della nostra vita. Accompagni i 32 ragazzi della comunita' cinese i 2 della comunita' inglese che oggi ricevono il sigillo del tuo Spirito. Resta sempre unito a noi e facci tutti santi.